Le storie degli altri parlano di noi – Intervista a Elisabetta Cametti


Elisabetta cametti ha cortesemete accettato di rispondere a qualche domanda sul suo nuovo libro “Una brava madre”, Piemme.

Innanzitutto, complimenti per il tuo bel romanzo, “Una brava madre”, che supera gli stereotipi del genere thriller per parlare di tematiche esistenziali, quasi filosofiche. È stata una scelta voluta e perché?
Una brava madre è il romanzo in cui si fondono le mie due anime, quella di scrittrice e quella di chi ogni giorno affronta casi di cronaca nera. La cronista testimonia come il male possa essere ovunque, anche qui e ora. La scrittrice lotta per dare voce alla speranza.
Trascorro le giornate a studiare scene del crimine, autopsie, piste investigative e profili psicologici. Scrivo romanzi per raccontare quelle storie, per farle entrare nelle case allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica, di rendere consapevole il lettore. Consapevole di quanto il male possa essere vicino, subdolo, letale. Solo chi conosce riesce a percepire, sospettare. Prevenire. Alcune volte, nelle esperienze degli altri riusciamo a trovare noi stessi… e a metterci in salvo.

Sono cinque le figure materne da te descritte: ognuna di loro rappresenta una parte di un tutto, un limite oppure un frammento di qualcosa?
Ognuna di loro rappresenta se stessa. E ognuna di loro vorrebbe essere considerata una “brava madre”.
A una viene rapita la figlia, un dramma che la porterà a valutare di farla finita, finché non deciderà di dedicare la propria vita alla ricerca di persone scomparse. Un’altra sceglierà di separarsi dal bambino appena partorito per salvarlo da un destino infausto. Un’altra ancora anteporrà carriera e notorietà al bene dei figli.
Mi sbagliavo quando credevo che non esistesse niente di più soggettivo del concetto di bene e di male. È la parola “madre” ad avere un’infinità di interpretazioni: ci sono tante idee di madre quante sono le madri.

La maternità, voluta a tutti i costi, oppure negata, offesa, calpestata… è il nucleo di questa storia. Come mai hai deciso di trattare un tema così delicato e difficile come quello della famiglia?
Il mio obiettivo era creare una trama avvincente e ricca di personaggi, per catturare l’interesse del lettore e portarlo a riflettere su un tema che diamo troppo spesso per scontato: la famiglia.
È in famiglia che si esprimono i sentimenti più profondi, sia quelli positivi sia quelli negativi: amore, conforto, sostegno, ma anche solitudine, rabbia e ostilità. Sono i sentimenti profondi a segnare le nostre vite.
«La famiglia può essere luce o buio assordante. Il pilastro che regge il nostro futuro o l’abisso in cui sprofondiamo. Non scegliamo i familiari, prendiamo quello che ci spetta: alcune volte sono una benedizione, altre un inferno.»

La figura di Penelope è centrale nello sviluppo dell’intera vicenda. Donna grandiosa nel bene e nel male, come la sua omonima più famosa ha saputo attendere. È questo il motivo per cui hai scelto questo nome e l’hai introdotta oltre la metà del romanzo?
In Una brava madre si intrecciano le storie di tre protagoniste: Annalisa Spada, capo della Squadra Mobile, che si trova a indagare sull’omicidio di un uomo dal passato misterioso. Giorgia Morandi, la conduttrice televisiva di un programma di inchiesta, che si è data una missione: scoprire la verità a ogni costo. E Penelope, una donna di cui nessuno conosce la vera identità. Tre donne forti, accomunate da un segreto taciuto per trentacinque anni.
Penelope è nata in un ghetto, dove la vita non ha valore, dove donne e bambini vengono trattati come oggetti da usare e sfruttare. Dove accoltellamenti e sparatorie sono all’ordine del giorno. Un posto in cui non si invecchia, se non muori per overdose, te ne vai in un lago di sangue. Penelope aveva solo due alternative: continuare a essere una vittima o trasformarsi in un carnefice. E ha scelto, senza voltarsi indietro.
È una protagonista che lascia il segno, e che sono sicura saprà farsi amare!

Giorgia, a un certo punto, riflette: «È grazie ai romanzi che ci rendiamo conto di non essere soli nelle nostre riflessioni, non siamo i primi a soffrire né gli ultimi a lottare.» Quale romanzo ritieni vicino a te per sensibilità e meditazioni? O meglio ancora: quali autori ti hanno formata a livello personale e letterario?
Le storie degli altri parlano di noi. Nulla si inventa in fatto di emozioni: per scoprire chi siamo è sufficiente aprire un libro.
Leggo di tutto, senza una preferenza di genere. Le mie letture sono dettate dallo stato d’animo e inizio sempre un nuovo libro prima di finire quello in corso. Sono tanti gli scrittori che apprezzo. Alcuni li sento più vicini a me come stile, altri li ammiro per la capacità di tenere alta l’attenzione, altri ancora per la maestria con cui tessono la trama. Da ogni libro ho imparato qualcosa, nel bene e nel male. Come sosteneva Plinio il Vecchio: “Non c’è libro tanto cattivo che in qualche sua parte non possa giovare”.

La storia che racconti è complessa, ricca di sottotrame, vicende che si rincorrono, intrecciano, riaffiorano, si sciolgono… come sei riuscita  a costruire, smontare e rimontare un puzzle così complesso?
È stato un lavoro importante, durato quasi tre anni. Ho scritto animata dal desiderio di passare un messaggio: sofferenza e felicità non sono incompatibili, la sofferenza è qualcosa di più intimo della felicità. Spesso è l’origine dei sogni. La scintilla che ci permette di costruire sulle macerie. Per questo non bisogna mai smettere di lottare per ciò in cui crediamo: l’amore, la verità, la giustizia. La luce in fondo al tunnel.

MilanoNera ringrazia Elisabetta Cametti per la disponibilità

Michela Vittorio

Potrebbero interessarti anche...