Sangue e neve



Jo Nesbo
Sangue e neve
Einaudi
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Jo Nesbo sa cambiare. Da Harry Hole e i suoi demoni a Olav di “Sangue e neve”, un killer dislessico e  pasticcione che non ne combina una giusta. Non fa le rapine perché non sa fuggire come si conviene. Non fa il pusher perché non sa tenere i conti. Non fa il protettore perché si innamora delle prostitute. L’unica cosa che sa fare è il killer. Almeno fino a quando si innamora della moglie di un boss della droga che in realtà dovrebbe uccidere, proprio su ordine del marito.
Basta uno sguardo dalla finestra per quel corpo flessuoso che si muove come un gatto. E anziché ucciderla cerca di salvarla. È solo questione di tempo per Olav. Trovare il modo di vincere, per una volta e fare fuori il boss prima di essere ucciso a sua volta. Di chi si può fidare? A chi chiedere aiuto?
La storia scorre veloce con buon ritmo e si legge in poche ore. Con gangster pronti a tutto e una ironia tagliente, potente e amara fino alla fine.
Un Nesbo che sa essere diverso. Questa volta usa la prima persona anziché la terza, per calarsi ancora di più nella testa e nelle elucubrazioni del protagonista. Un po’ hard boiled e un po’ Leon di Besson. Azione e sangue ma anche l’umanità di Olav che si porta dietro, come una condanna, per aver scelto una vita che in fondo non gli apparteneva. Quella del killer.
E allo stesso tempo il solito Nesbo che mantiene le sue caratteristiche. Un incantevole paesaggio norvegese, con le sue luci e le sue ombre. Il freddo e il profumo di pescherie affollate di gente alla vigilia di Natale. E quel senso di sospensione che dà un manto nevoso che come un piumino ti si avvolge addosso.
I suoi personaggi hanno sempre un lato oscuro dettato dalle più semplici e complicate relazioni affettive.
Quelle che ti porti dietro dall’inizio, quando cominci a camminare e a inciampare. Quelle che condizionano tutte le scelte successive. E l’ineluttabilità sarcastica della vita che gioca le carte a suo piacimento.
Tutti ripetevano di continuo che somigliavo a mia madre. Solo quando fissai mio padre negli occhi per l’ultima volta capii che in me avevo anche lui. Come un virus, una malattia del sangue. Di solito veniva da noi esclusivamente quando gli occorrevano soldi. E di solito gli davamo quel poco che avevamo.” (…)

(…) Mi ero seduto sulla riva spaziando con lo sguardo sopra la superficie luccicante mentre pensavo, ecco cosa ci lasciamo dietro: pochi anelli sull’acqua che durano qualche istante e poi scompaiono. Come se non fossero mai esistiti. Quella fu la mia prima liquidazione.

Qualche settimana dopo ricevetti una lettera dell’università che diceva :” siamo felici di comunicarle che è stato ammesso alla… e la data e l’ora dell’immatricolazione.

La strappai lentamente. “

 

Arianna Destito

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