Un romanzo davvero scabroso, incarna il realismo francese degli anni, 1867, in cui fu pubblicato e per questo motivo ha dato adito a numerose polemiche da parte della critica, tanto che Zola fu costretto a difendersi nella prefazione della seconda edizione del 1868, sostenendo che “in Thérèse Raquin ha voluto studiare dei temperamenti e non dei caratteri”.
In realtà è un noir vero e proprio, che non lascia spazio a niente che non siano le sconcezze dell’animo umano. Racconta di un delitto passionale, che potrebbe sembrare banale, ma non per niente è Emile Zola che scrive e ti fa percorrere quei passage di Parigi, quell’atmosfera lugubre e respirare quell’aria grigia, ti fa vedere quel muro nero del palazzo di fronte su cui viene spiaccicato il gatto e ti fa sentire il fruscio delle gonne con cui Thérèse spazzola i marciapiedi di Parigi diretta ai bordelli. Tutto ciò con una solida trama, raccontata con un distacco da fermo immagine, che non fa perdere al lettore il contatto con la realtà. Il romanzo è breve, scorrevole e accattivante proprio per il degrado dei sentimenti dei protagonisti, l’assenza di etica, l’agire comandati dalle nevrosi e non dal ragionamento, come risposta all’illuminismo imperante nei ragionamenti da salotto dell’epoca. Non c’è spazio per il perbenismo e per il corretto agire, dominano i colpi di testa, i crimini efferati, la violenza e la non assunzione di responsabilità che inevitabilmente conducono a vite disgraziate.
La protagonista è Thérèse, orfana di madre algerina e figlia del capitano Degans, che la affidò alle cure della sorella, madame Raquin, madre di Camille, un uomo gracile, alto, malaticcio, che emanava un odore dolciastro per tutte le medicine che prendeva. Thérèse aveva un carattere forte e tanta voglia di vivere, ma la vita che era costretta a condurre accanto al cugino sempre malato, una vita claustrale, la resero una donna chiusa in sé stessa, parlava sottovoce e si muoveva senza fare rumore. Ad un certo punto della vita fu costretta a sposare Camille, come aveva disposto la zia, al fine di assicurare all’amato figlio cure attente e solerti, ma nella sua vita non cambiò nulla, tranne che dopo qualche tempo Camille decise che tutta la famiglia si sarebbe trasferita da Vernon a Parigi, per trovare un lavoro più redditizio. Fu così che la madre e Thérèse aprirono una merceria situata nel passage di Pont Neuf, descritto in modo magistrale dalla penna di Emile Zola, quasi un affresco. Camille nel frattempo trovò un impiego presso l’amministrazione delle ferrovie d’Orleans. Avevano riunito attorno a loro una piccola combriccola di amici, coi quali giocavano a domino ogni giovedì sera. Così vennero istituiti i ricevimenti del giovedì sera, col commissario Michaud e monsieur Grivet, si accendeva la lampada, si scaldava l’acqua per il tè e si andava a casa alle undici. Thérèse si annoiava enormemente, finchè Camille una sera si presentò con un ragazzo robusto e forte, Laurent.
Non rivelo altri dettagli della trama, per non spoilerare troppo, ma di una cosa potete essere certi: finisce davvero male! Accendete la luce durante la lettura…