Rosa elettrica



giampaolo simi
Rosa elettrica
einaudi
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Giampaolo Simi ritorna in libreria con un romanzo dalle tante facce, apparentemente semplice ma in realtà molto complesso. Un libro che offre diversi piani di lettura ed altrettanti spunti di riflessione.
La storia parte lenta per poi accelerare quando meno te l’aspetti. Il protagonista, o meglio il co protagonista, è Cociss, diciottenne, feroce capozona nel quartiere 167 di Napoli che sotto di sé ha una ventina di soldati che spacciano cocaina e altro. Il romanzo si apre con la sua cattura e il suo strano “pentimento” in seguito ad un triplice omicidio cui rimangono vittime anche due bambine.
Il compito di proteggerlo è affidato a Rosa, giovane poliziotta al suo primo incarico importante, e vera protagonista della narrazione. La ragazza, ci metterà poco a capire che c’è qualcosa di poco chiaro nel programma di protezione di Cociss, malgrado le rassicurazioni dei suoi superiori. La situazione, infatti, precipiterà e i due si ritroveranno in fuga insieme sulle strade del Nord Europa…
MilanoNera ha intervistato l’autore.

Quanto lavoro di ricerca ha richiesto questo romanzo? A giudicare da come sei preciso nelle procedure direi molto?
All’incirca un anno e mezzo. Ma il progetto del libro arriva da più lontano. Erano da almeno quattro anni che mi portavo dentro questa storia. Ovviamente ho avuto qualche prezioso consulente.

Come mai la scelta di mettere come protagonista una donna e di raccontare la storia in prima persona attraverso i suoi occhi?
Un bel giorno, dopo vari tentativi, sono arrivato a quel punto decisivo, fondante, in cui ciò che vuoi raccontare e come lo vuoi raccontare si uniscono e si giustificano a vicenda. La mia storia aveva un senso, una forza, se a raccontare la belva, il capozona Cociss era la poliziotta Rosa, con le sue insicurezze e la sua
ostinazione. Un incastro sorprendente, che rendeva i personaggi narrativamente necessari l’uno all’altra.

E’ stato impegnativo?
Solo quando ho capito che era la strada giusta ho affrontato la scrittura in prima persona femminile, che per un uomo assomiglia molto a un triplo salto mortale. In realtà ho pensato a Rosa come a una persona, prima ancora che a una donna e a un’agente di polizia.
Diciamo che ho fatto un bel respiro, ma da quando ho iniziato è stata poi un’avventura straordinaria. Raccontare con gli occhi di Rosa mi ha portato lontano da molte situazioni tipiche consolidate del noir,
scrittura tradizionalmente maschile. E le situazioni tipiche a lungo andare rischiano di sclerotizzarsi in luoghi comuni.

In questo romanzo affronti diversi temi: la giustizia, l’amore, la fuga. Puoi spendere una parola per descriverci ognuno di questi aspetti?
La giustizia è un patrimonio di regole condivise da una collettività, ma è ovvio che contemporaneamente sia sentimento profondamente individuale, legato addirittura alla sfera emozionale. Ognuno di noi
è destinato, almeno una volta nella vita, a sperimentare una lacerazione fra questi due aspetti. L’amore è una rivoluzione. E siccome la rivoluzione non è un pranzo di gala, ne discende che in amore bisogna essere disposti a sporcarsi le mani. La fuga talvolta è, in realtà, l’espulsione da parte di un sistema di elementi
divenuti incompatibili. In questo caso è il risultato più evidente di un cambiamento, talvolta persino di una rigenerazione. Anche la nascita è la fuga da un posto bellissimo, che ci ha donato la vita, ma che se continuasse a ospitarci ci darebbe la morte, no?

Nel tuo romanzo si parla di pentiti, criminalità organizzata, comunità di recupero… Volevi lanciare un messaggio?
Volevo raccontare una storia. Credo che questo sia già di per sé un messaggio fondamentale. Estetico e politico nello stesso momento. Scrivere una storia è creare ipotesi sulla realtà che mi circonda, e quindi esplorare possibilità, non accettare che tutto debba rimanere come è. E quindi guardare avanti.

Il giallo è ancora romanzo sociale per antonomasia?
No. Mi spiego citando alcune recenti letture che mi hanno regalato un nuovo sguardo sul presente o sul passato prossimo: “Minima Criminalia” di De Cataldo, “Il male stanco” di Bernardi, “Andare ai
resti” di Quadrelli. Nessuno di questi studi sul crimine è un romanzo giallo, anche se alcune pagine sono costruite con espedienti narrativi. In questi ultimi anni abbiamo pensato che “il romanzo giallo indaga la realtà sociale del Paese” fosse un assioma reso vero dalla sua semplice enunciazione. Sfortunatamente è invece un’affermazione che necessita continue dimostrazioni. E poi, insisto, io sento che il mio mestiere è creare storie avvincenti. Mestiere che molti in Italia pensano di saper fare come divertissement, come pretesto per comunicare imprescindibili speculazioni filosofiche sulla vita, il mondo e tutto il resto. Balle.
L’inchiesta, il lavoro di documentazione li faccio per verificare se l’ipotesi immaginativa di una storia ha la forza di resistere alla prova dei fatti, se apre una nuova possibilità di interpretazione sul reale.

So che fai parte degli sceneggiatori della serie Coliandro. Ti piacerebbe sceneggiare Rosa Elettrica per il cinema o sei un purista e lasceresti ad altri l’adattamento?
Lo sto già facendo! “Rosa elettrica” ha destato l’interesse entusiastico in più d’un produttore cinematografico, e ancora prima di uscire. Quindi siamo al lavoro.
Deduco di non essere un purista. O forse sì, nel senso che imparando a raccontare storie con mezzi diversi (ultimamente sto scrivendo parecchio anche per la tv), si acquisisce una coscienza più esatta della specificità di ciascun mezzo. Ne individui il DNA, per così dire, e poi puoi decidere se e quando ibridare. Per esempio: Fois è un autore che lavora molto per la tv, e allo stesso tempo scrive dei libri in cui ogni parola, ogni paragrafo, pagina sono elevati alla massima purezza e indipendenza espressiva.

paolo roversi

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