Si definiscono bottoms up e sono quei libri che si leggono tutti di un fiato.
Era da tempo che non me ne capitava uno tra le mani e mi ero quasi dimenticata di cosa significasse lasciare che l’acqua per la tisana evapori completamente sul fuoco, che i messaggi whatsapp si accumulino non letti o che il corriere venga liquidato al citofono con un: mi lasci pure il pacco sulle scale, grazie.
L’Avvelenatore di Emanuele Altissimo mi ha riportato a quella fame di parole scritte che avevo da liceale nel bus che mi portava a venti chilometri dalla scuola, a quel qualcosa di ancestrale e intenso che solo una scrittura evocativa, particolareggiata e potente può regale pienamente a chi legge.
C’è psicologia, c’è sociale, c’è indagine, c’è morte e c’è assoluzione, anche se quest’ultima solo evocata.
E c’è la provincia rurale quel luogo mitologico e insieme terribilmente reale che ha sulla coscienza fantasmi da smaltire, crisi emotive da superare e oscuri segreti da ignorare. In un posto come questo vive e cresce il protagonista di questa storia. Un racconto che parla di autorità e soprusi, di psiche e veleni, di corrosione fisica e mentale e anche, inevitabilmente, di morte e castigo.
E sarebbe davvero troppo facile andare a scomodare Dostoevskij per parlare della manifesta intenzione autoriale di descrivere la qualità di una punizione, perché in realtà quello che si legge in questo noir è più la condanna di una sorta di rapporti malati e altamente tossici che solo all’interno di una famiglia sembrano avere l’humus appropriato per alimentarsi.
Arno, il protagonista, passa tutta la vita a essere avvelenato dall’autorità di suo padre, un giogo che lo stringe e lo soffoca e che lo porta a una forma di odio tra le più pure e incorrotte. Un odio che può portate anche a uccidere? Il padre di Arno viene ritrovato assassinato e lui sospettato. Il veleno ancestrale e primitivo con cui è stato nutrito il giovane uomo e che ha avuto in lui la stessa funzione di quello usato dai contadini della sua zona per concimare i loro terreni ha davvero attecchito così profondamente nel suo animo tanto da portarlo a consumare il castigo per eccellenza? E se fosse, invece, anche questo un nuovo giogo a cui vogliono sottometterlo per privarlo ancora una volta della libertà.
Altissimo non risparmia nulla ai suoi lettori. Ci inchioda alle pagine. Ci costringe a fare da “giudici” e perfino a parteggiare. Ci induce a riflettere sulle millemila ipocrisie sociali di cui siamo circondati, sulla solitudine sfacciata eppure ignorata dei nostri simili, sulle brutture che rendono gli esseri umani abissi di oscurità e lo fa con un romanzo dove la tensione narrativa non cede a nessuna sbavatura, a nessuno iato, a nessuna stanchezza.
Quattro anni per poterlo rileggere.
Un solo capoverso per capire che ne valeva la pena.