Io, loro e Lara

Maledetto il giorno che t’ho incontrato. Ci sono tutti i presupposti che tu diventi Il mio miglior nemico”, vorrebbe dire Bea, la sorella di Carlo, prete missionario in odor di dimissioni dalla tonaca, a Lara, dark lady rimmel antracite e labbra di fuoco. Non vorrai mica farmi perdere 7 chili in sette giorni?

Poi c’è Luigi, fratello bancario e cocainomane indefesso tutto acqua e sapone e qualche riga di borotalco. C’è un padre, gallo cedrone d’antan della pellicola, che i figli accusano di demenza senile quando quest’ultimo, dopo aver portato in viaggio di nozze la badante moldava, le lascia in eredità tutti i suoi averi. Si sa, l’amore è eterno finchè dura e, infatti, la concubina bionda fa una brutta fine. Non c’era un cinese in coma ma un moldava morta, sì. “Ma che colpa abbiamo noi, se Olga si è sentita male? Non serve un manuale d’amore per capire che il sesso sfrenato dopo i quaranta andrebbe evitato”, pondera Padre Carlo. I due carabinieri procedono con i rilevamenti mentre il coroner dichiara l’ora del decesso. “Sono pazzo di Iris blond”, dice ora il canuto padre lanciando il parrucchino color Mengacci tanto amato dalla cara estinta contro la salma coperta dal telo verde.

Il calambour che precede contiene parte dei titoli della titanica produzione di regista romano Superata la boa della ventiduesima pellicola con Io, loro e Lara, Verdone mette a nudo il belpaese mostrando come oltre la porta del Mulino Bianco ad accoglierci ci sia, mani di forbice, Freddy Kruger.

Il film, il cui doppio piano narrativo si unisce al momento del funerale della badante offre uno spaccato efficace dell’Italia di oggi, della sua volgarità senza pari, della sua ipocrisia. Acuita in quanto vista attraverso le lenti di un missionario, lo stesso regista, di ritorno, da un’Africa di povertà e di buoni sentimenti dopo un’assenza protratta per molti anni.

Verdone lascia più spazio che mai al rinomato parterre dei coprotagonisti e al loro corteo dei loro difetti. Se il resto della famiglia si divincola tra rancori, cecità, avidità, Carlo è l’icona di Amleto tenendo per sé dubbi e sciogliendo i dilemmi che si snodano di scena in scena. Le domande, iterate e continue, rincorrono nell’arco della pellicola sotto le sembianze di un io narrante. Non sarà che la burrosa moldava vuole irretire il padre che presenta tutti i sintomi più molesti del rimbambimento? E padre Carlo dovrebbe assecondare le paranoie di sua sorella Bea, psicoterapeuta distratta ma pronta a tutto per salvare la dote, o intimarle, invece, un controllo maggiore sulla figlia? E in merito al famolo strano del fratello che solo con strisce di coca e simulazioni di suicidi raggiunge l’orgasmo, non sarebbe il caso di parlarne con uno specialista?

Lara sarà la chiave di volta e toccherà proprio a padre Carlo chiarire un enigma che è di natura morale più che poliziesca. In un crescendo di situazioni grottesche e malinconiche risate che esploderenno in un finale, troppo forte. Ca va sans dire.

bea buozzi

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