Questo è il secondo volume di quella che è stata definita una Trilogia Sporca d’Italia, dove il trentenne Simone Sarasso si ripropone, con rabbia, passione civile e fremiti d’esaltazione ‘tarantiniana’ di raccontare la strategia della tensione dall’omicidio Montesi a Tangentopoli.
Dal punto di vista dei corrotti, dei politici senz’anima e soprattutto delle spie dei servizi segreti deviati. Di chi ha messo le bombe. In questo romanzo sono sviscerati tutti gli anni di piombo: dal tentato Golpe Borghese passando per Piazza della Loggia, l’Italicus, Aldo Moro e la strage di Bologna. Il decennio lungo del secolo breve osservato con sguardo lucido e febbricitante, come nella nebbia che si dissolve dopo la guerriglia.
Quando, esattamente, è nata l’urgenza di questo ambizioso progetto, che ti ha spinto a caricarti sulle spalle sessant’anni di storia italiana e riscriverne i periodi più delicati?
Sono passati quasi sei anni da quando scrissi il primo appunto su carta inerente al progetto. Ricordo che avevo appena finito di leggere Romanzo criminale e pensavo che il personaggio del Vecchio fosse semplicemente straordinario: il soldato invisibile, l’agente ombra dei Servizi segreti. L’uomo nero. Scrissi su un taccuino (che conservo ancora, anche se è ormai logoro e piuttosto malandato): La storia del Vecchio da giovane. Credo che sia stato quello il punto zero della trilogia.
Dopo sono venute le giornate negli archivi, le nottate in rete, i pomeriggi col naso tuffato nelle relazioni della commissione stragi.
Dopo è venuta l’indignazione, che è stato ed è il vero motore dell’opera. Ma se dovessi raccontare l’inizio di questa storia, sicuramente partirei da quella frase: La storia del vecchio da giovane.
In che modo hai operato nella scelta dei personaggi da utilizzare?
Be’, considerando che Settanta è il seguito di Confine di Stato, alcuni personaggi me li sono tirati appresso in maniera del tutto naturale: è il caso di Sterling, di Kurtz e dell’Omino.
Secondo un fondamentale principio ellroyano, personaggi marginali nel volume precedente (vedi l’Omino, per esempio) assumono in questo libro un ruolo da protagonisti.
Ci sono però anche alcuni nuovi arrivi: Ettore Brivido (il bandito gentiluomo) e Nando Gatti (l’attore culto del poliziesco all’italiana) sono due icone dei Settanta italiani. I loro corrispettivi storici mi ossessionano da parecchio tempo.
Ma raccontare la storia di quelle persone sarebbe stato riduttivo, oltre che scontato.
Ho voluto fare un passo in più. Ho voluto intrecciare cronaca e finzione, importando le esistenze di due personaggi totalmente estranei alla Strategia della Tensione nel grande disegno nero che ordiscono Sterling e i suoi. Così facendo, ho ottenuto due character nuovi di zecca.
Sei nato nel 1978, il decennio che racconti ti ha solo sfiorato: è stato difficile entrare narrativamente in quegli anni?
Per niente. Per quanto mi riguarda, trovo molto più facile raccontare un passato più o meno remoto (o un futuro più o meno prossimo) che il presente.
Per me è molto più semplice narrare ciò che non ho vissuto. Perché posso esercitare un certo distacco.
Sarà piuttosto difficile, credo, parlare degli Ottanta e dei Novanta nel prossimo volume, dal momento che attraverso quegli anni ci sono passato e hanno lasciato su di me un’impronta, un’impressione indelebile.
Dai tuoi romanzi si evince un’inquietante verità: l’Italia, al contrario di quanto dice la nostra Costituzione, non è affatto una Repubblica Antifascista: com’è possibile una contraddizione così plateale? E quando riusciremo a fare finalmente i conti con il Ventennio?
L’Italia non è sicuramente un Paese di sinistra. L’anticomunismo, molto più dell’antifascismo, è stato uno dei valori fondanti della Repubblica. Basta prendere in mano un libro di storia per rendersi conto del peso sessantennale dell’influenza statunitense sulle politiche italiane.
Gladio fu creata per “decapitare le istituzioni in caso di vittoria – anche democratica – delle sinistre”. Gladio nacque da un accordo tra Sevizi italiani e Servizi americani. Gli americani erano pronti ad appoggiare il colpo di Stato, se i comunisti avessero preso il potere. Proprio come in America Latina.
Queste non sono fantasie da romanzo, questa è storia: http://www.repubblica.it/2008/01/sezioni/politica/documenti-foreign-office-1/documenti-foreign-office-1/documenti-foreign-office-1.html.
Be’, in un Paese cresciuto con questi presupposti, come è possibile pensare a un’eradicazione totale del fascismo?
E i rigurgiti di questo orgoglio destrorso ce li abbiamo ancora in mezzo ai piedi, sessantasei anni dopo lo scioglimento del Partito Nazionale Fascista. Guarda un po’ chi è il ministro della difesa. E ricordati quello che diceva solo trent’anni fa: http://www.youtube.com/watch?v=0BpW_XRhbJ8.
La gente, soprattutto chi allora non c’era, oggi collega gli anni di piombo alle BR, quando il terrorismo nero ha mietuto più vittime e soprattutto tutte civili. Questo per colpa delle varie strategie sotterranee di distrazione di massa. Nonostante ciò, però, le BR erano vere, non solo infiltrati.
E le frange violente della sinistra extraparlamentare erano diverse. Dove ha sbagliato secondo te il nostro PCI? E, con il senno di poi, qual era la via da imboccare per evitare quella sorta di guerra civile?
La violenza, che sia di destra o di sinistra, è comunque la strada sbagliata. Piango le vittime del terrorismo nero esattamente come quelle delle BR. Nel mio cuore di cittadino non c’è differenza tra chi è rimasto sull’asfalto in Piazza Fontana o in Largo Cherubini.
Più che sulle errate strategie del PCI, focalizzerei l’attenzione sulle mancanze di quel periodo. Sui posti vuoti.
Se l’Italia di quegli anni fosse sopravvissuta a se stessa e se fosse riuscita ad entrare negli Ottanta con Enrico Mattei e Aldo Moro, avremmo tutto un altro Paese.
Mattei, assassinato nel 1962, era colui che avrebbe potuto garantire allo Stato l’indipendenza energetica. Cioè l’indipendenza politica dagli Stati Uniti.
Moro, nonostante non fosse di certo né un martire né un santo (mi fanno sorridere certi recenti processi agiografici), era l’unico in grado, all’epoca, di ricomporre la frattura del 1976 (che ci ha fatto quasi rischiare il golpe) e di costruire una larga intesa.
Anche lui, come Mattei, è stato brutalmente ucciso. E noi ci ritroviamo il Paese che ci ritroviamo.
Abbiamo avuto la più grande Guerra Fredda d’Europa. I più cinici ritengono fosse inevitabile quello che è successo. Inoltre eravamo sempre sull’orlo di un golpe. Cosa ci ha impedito di fare la fine della Spagna, della Grecia o del Cile? E com’era possibile evitare, o contenere, tutte quelle trame sotterranee che si sono mangiate il nostro paese?
È brutto da dire, ma è stata la DC ad averci evitato il golpe. È stato il partito dei preti e delle beghine, che ha allevato in seno fior fior di amministratori abilissimi nel fare piazza pulita delle pubbliche finanze, a tener lontani i carrarmati sovietici e statunitensi.
E’ così: in Italia, se si sommano gli anni di governo della sinistra dal 1945 a oggi non si arriva alla maggiore età (si arriva a malapena all’età scolare). Se si mettono in fila quelli della DC si va in pensione per sopraggiunti limiti anagrafici…
L’esperienza di governo più duratura dell’area progressista è stata quella socialista. E non devo ricordarti come è finita, giusto?
In Paese così, a cosa serve fare il colpo di Stato?
Le istituzioni avevano (e hanno. Il Presidente del Consiglio ignora che la Guerra Fredda sia finita) già tutti gli strumenti di controllo che servono.
Quale dei tre periodi che affronti nella trilogia ritieni sia stato il più ‘letale’ per il nostro paese, quale evento ha messo fine alla speranza di una sana e seria democrazia?
La mia Trilogia è la storia di una reazione a catena, un domino funesto che ha contribuito a reprimere la democrazia, a lasciare sempre meno spiragli per un’evoluzione sana del Paese. Io credo che colpi al cuore come la morte di Mattei o di Aldo Moro siano significativi.
Ma al contempo sono conscio che nessuna chain reaction si innesca senza l’evento scatenante. E quell’evento è la morte di Wilma Montesi, avvenuta nel 1954.
Senza quel decesso (e il processo che ne seguì, che coinvolse il figlio dell’allora senatore democristiano Piccioni, costringendolo – per lo scandalo, notate bene. Per il solo sospetto che suo figlio fosse coinvolto. Era proprio un’Italia d’altri tempi – a dimettersi), non ci sarebbe stata via libera alla corrente Fanfani. E, conseguentemente, anche Andreotti avrebbe avuto molto meno potere.
Sarebbe stata di sicuro un’altra Italia.
Quanto ha influito il nostro andamento politico di questi anni sulle tue scelte narrative? Ovvero: se non avessimo Berlusconi ancora al governo, avresti sentito ugualmente l’esigenza di scrivere i tuoi libri?
A questo proposito mi sento di allacciare il nostro discorso a quello de Il Divo di Sorrentino (al quale, a mio avviso, ti lega una parentela poetica) e il saggio di Wu Ming 1 sul New Italian Epic, nelle cui coordinate teoriche sei stato intercettato. Evidentemente c’è qualcosa nell’aria, oggi, qualcosa di grosso, che preme per emergere sottoforma di discorso artistico. Come lo spieghi, che nome gli dai?
Rabbia? Voglia di cambiamento? Di giustizia?
Berlusconi sicuramente non è il mio presidente, e la sua presenza al governo da così tanto tempo ha senz’altro acuito il senso civile di parecchia gente.
Tuttavia, per come la vedo io, l’attuale premier non è che la coda di un processo degenerativo della democrazia iniziato un sacco di tempo fa. Anche senza di lui, ce ne sarebbero stati comunque di motivi per incazzarsi e scrivere la Trilogia Sporca.
Quella “nebulosa” che hai tracciato, quel comune sentire, quel filo rosso che va da Sorrentino ai Nuovi Epici Italiani al sottoscritto senz’altro c’è. E credo sia uno dei motori di molta produzione di razza degli ultimi dieci anni. Penso a libri come 54 di Wu Ming, o allo strepitoso Al diavul di Alessandro Bertante. C’è una forza che preme da più parti, che spesso diventa fronte comune e spessissimo viene incanalata per trasformare la critica sociale in opera d’arte.
Questo permette al messaggio di arrivare più lontano. Di essere compreso da un numero maggiore di persone.
Ho notato un’evoluzione, nello stile e nell’impianto, pur nella continuità degli intenti, rispetto a Confine di Stato. Che direzione ha preso, e prenderà il tuo lavoro?
In questo romanzo ho prestato particolare attenzione alla lingua. Non si può raccontare questo Paese senza tenere conto delle diversità linguistiche che lo caratterizzano.
Per cui, se è un criminale siciliano a parlare, non può esprimersi come Bruce Willis in Die Hard. In qualche modo, in Settanta, ho ribaltato gli intenti stilistici di Confine di Stato.
In appendice al mio romanzo d’esordio scrivevo: “Nessuno, nella Roma dei Cinquanta, chiama ‘amico’ il proprio interlocutore, come nei film americani”, e lo scrivevo per sottolineare la distanza dalla lingua reale a quella che io utilizzavo nel libro. Ora succede proprio il contrario: siccome nessuno, nella Milano dei Settanta, chiama ‘amico’ il proprio interlocutore, io metto in bocca ai miei personaggi il parlato vero di quegli anni. E dunque sostituisco ‘amico” con ‘sociu’, per esempio.
Dove sono, oggi,i vari Sterling (il protagonista, agente dei servizi deviati, ndr) e compagnia briscola?
Se ti riferisci ai personaggi della mia trilogia, non è facile risponderti.
So per certo cosa combineranno Sterling e soci nel futuro: ho scritto una graphic novel per raccontarlo. Si chiama United We Stand (www.unitedwestand.it), parla del primo colpo di Stato militare sul suolo italico (che avverrà nell’aprile 2013) e uscirà in volume per Marsilio in autunno.
Non so ancora cosa combineranno negli anni Ottanta e Novanta. Sono appena uscito dal tunnel dei Settanta e voglio tirare un po’ il fiato.
Se invece ti riferisci ai corrispettivi reali di Sterling e soci, ossia i cari vecchi agenti segreti, be’, amico… quelli sono sempre al loro posto.
A farsi i cazzi di molti per l’interesse di pochi. Però attento: mica tutti sono così cattivi. Di tanto in tanto ce n’è anche qualcuno che si mette tra una pallottola e un civile. E allora capita che una Giuliana Sgrena qualunque salvi la pelle.
Cosa ti auguri che avvenga nel lettore dopo che ha chiuso i tuoi romanzi?
L’effetto primario che spero di sortire con le mie storie è l’indignazione.
Se poi penso al lettore più giovane, però, mi piacerebbe che, una volta chiusi i miei libri, gli venisse voglia di aprirne altri.
Magari qualche libro serio e documentato sulle cose che racconto, come quello di Giorgio Boatti su Piazza Fontana, o quello di Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là, sulla tragica storia di suo padre.