Il tempo invecchia in fretta



antonio tabucchi
Il tempo invecchia in fretta
feltrinelli
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La nostalgia del tempo peggiore secondo Antonio Tabucchi

Antonio Tabucchi, gli occhiali d’oro dalla montatura rotonda e la penna nel taschino sinistro della camicia, arriva salutando tutti con semplicitŕ in una libreria piena di persone che tengono in mano “Il tempo invecchia in fretta” (Feltrinelli), il suo ultimo libro. «Viene il tempo per uno scrittore di cercare di misurare ciň che č accaduto.-esordisce lo scrittore toscano, da anni residente in Portogallo- Raccontare un avvenimento č afferrarlo, altrimenti ciň che accade č un fiume che ci passa accanto. Siamo dei poveri geometri della vita».

E di tempo parlano i nove racconti di questa raccolta e della nostalgia di quello passato, anche di quello peggiore: «I miei personaggi vorrebbero recuperare un tempo perduto. -spiega l’autore- Siamo abituati alla nostalgia del bello, ma si puň avere anche nostalgia del peggio: di un muro o di una prigione».

I protagonisti di queste storie soffrono infatti della nostalgia in senso letterale ovvero del “dolore per un ritorno impossibile”. In “Nuvole” un militare italiano, reduce dalla guerra in Yugoslavia e affetto dalla Sindrome dei Balcani, insegna a una bambina a leggere il futuro nelle nuvole. In “Bucarest non č per niente cambiata”, un anziano, sopravissuto alla dittatura di Ceausescu e trapiantato a Tel Aviv, rivive l’orrore dei tempi del Conducator. In “I morti a tavola” una ex spia della Ddr, il cui compito sotto il regime era sorvegliare Bertolt Brecht, si reca sulla tomba dello scrittore per svelargli un segreto.

Frammenti poetici che raccontano l’esistenza senza cercare di darle un senso perché: «La letteratura serve a inoltrarci in questa miniera buia che siamo noi, -racconta Tabucchi- a farci entrare in questa oscuritŕ di cui siamo fatti con una piccola lampadina sulla testa».

Partendo dalla memoria del tempo, l’autore si interroga poi sulla memoria dello spazio. Bucarest, Istanbul, Varsavia, Berlino vanno ad aggiungersi a quella che č ormai una vera geografia della narrativa tabucchiana. Luoghi che, per lo scrittore, sono dentro di noi e forse mantengono la nostra impronta al punto che uno dei personaggi si fa questa domanda: «Mi riconosci, aria, tu che un giorno conoscevi le cose che furono mie?»

Non sono qui a parlavi del mio libro.
Il libro l’ho scritto e piů di cosě non potrei fare.
Il narrare č una scansione, č una misura.
Non serve a dar una soluzione ma si capisce di piů di quello che sono le anime di noi umani.

camilla corsellini

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