Con Vuoti di memoria (Mondadori, collana Il Giallo Mondadori, settembre 2024) Valerio Varesi supera il traguardo delle nozze d’argento con il suo commissario Soneri, apparso la prima volta nel 1998 ed entrato di prepotenza nel cuore e nella mente di milioni di lettori, in Italia e nel mondo.
E a pieno titolo direi, visto che il commissario di romanzo in romanzo si conferma uno dei personaggi più “umanizzati” della letteratura crime europea, come peraltro ha dichiarato l’illustre Alberto Bertoni alla prima bolognese del romanzo.
Aggiungerei anzi che, a ogni nuova indagine – e siamo alla diciassettesima -, Soneri, personaggio seriale ma solo in quanto protagonista in sequenza dei suoi romanzi, di iterato conferma di non avere proprio nulla poiché muta al mutare della realtà, quella interiore e quella circostante. Come tutti noi, del resto.
Mai forse come in Vuoti di memoria, dove si trova a fronteggiare un’inchiesta tra le più sfuggenti della sua carriera, spoglio oltretutto di certezze. Affettive e professionali. Un’inchiesta che pare intricarsi all’avanzare dell’indagine, seminando dubbi ben più che convinzioni.
Partita dalla crudele uccisione del socio di un’impresa di pompe funebri, Romeo Calandri, e condotta inizialmente da un collega di Soneri, si è presto conclusa con l’imputazione del reato a Carmelo Musci, un killer professionista al soldo della ‘ndrangheta, già autore di mezza dozzina di esecuzioni. Soneri, che inizialmente aveva solo collaborato ed era subentrato al collega dopo il suo pensionamento, dubita di quella facile soluzione dove gli indizi non gli sembrano così probanti e neppure l’ulteriore colpevolezza del pluriomicida nella sparizione di Luciano Orsi, il socio di Calandri.
E infatti Orsi ricompare, a Cesenatico, a bordo di una barca di sua proprietà e in possesso di mezza dozzina di bozzetti raffiguranti decorazioni funerarie. Stremato nel fisico e raggelato in un’amnesia presto diagnosticata come dissociativa.
Simula? Impossibile, sanciscono i neurologi. È un innocente sfuggito all’assassino, oppure un complice nell’uccisione del socio? Sia come sia, «Morto e poi vivo, ammazzato e resuscitato, prima vittima e poi fuggitivo», Orsi incarna alla perfezione la rappresentazione della realtà: ambigua e aggrovigliata, uno “gnommero” la definirebbe il sommo Gadda, un «costante equivoco» la stigmatizza Soneri.
E se alla fine il commissario perviene a una soluzione del caso, colpevole e movente decifrati almeno per lui, non ha dubbi che molto altro resterà in ombra perché la depressione ciclonica – ancora Gadda – che avviluppa il delitto è fatta di molteplici forze e di altrettante ragioni.
Vuoti di memoria è il romanzo dello smarrimento, di Soneri e della nostra realtà, di Soneri davanti a questa realtà. La perdita di memoria cui il titolo allude non ha alcun significato patologico – ognuno plasma i ricordi in modo personale e magari difforme da altri che hanno diviso quell’esperienza – ma consegue alla profonda incertezza del mutato rapporto con una realtà proteiforme, che sembra irridere e minare i valori di riferimento. Soneri dunque indaga ma, ormai privo di quegli strumenti, pare inabissarsi nel caos degli indizi anziché sbrogliarne la matassa e sciogliere univocamente il mistero.
Certo, il commissario si interroga sulla perdita della memoria personale, conseguenza dell’età e del moltiplicarsi delle esperienze – «i neuroni… Credo che scoloriscano come la scrittura sui fogli vecchi» -, ma ad affliggerlo soprattutto è la consapevolezza che una memoria ben più collettiva, di una intera società e della sua storia, è andata perduta, e con essa un modo più civile e solidale di vivere il nostro tempo.
E che cos’è mai la perdita di memoria se non una perdita di identità? Già, perché «noi siamo la nostra memoria». L’interrogazione sull’identità corre infatti pirandellianamente lungo tutto il romanzo, e si estende da quella individuale, di Soneri o di altri personaggi, all’intera società occidentale.
Vacilla il commissario, non più certo dei suoi ricordi: Boni, compagno di liceo, portava le basette anni ’70? Macché, lo confuta con decisione un altro amico di scuola.
Vacilla nel privato, perché lui e Angela, la storica amata, sembrano non custodire la medesima memoria dei prodromi del loro rapporto. Avverte aumentare la distanza con l’ironica e pragmatica compagna, che qui talora cede a un’ironia dispettosa, e, non per la prima volta (Reo confesso, Mondadori, collana Il Giallo Mondadori, 2021), tocca con mano come ognuno di noi mantenga spazi riservati dentro di sé, che non è disposto a condividere neppure con le persone più vicine.E e custodisca ricordi difformi dall’altro.
Vacilla nel mestiere, Soneri, insicuro della sua memoria e quindi dei processi logici con cui finora ha sbrogliato le indagini. Da tempo poi (Il commissario Soneri e la legge del Corano, Sperling & Kupfer, collana Pickwick, 2018) sembra nemmeno riconoscere la natura della criminalità, quasi che gli «attori siano piombati sul palcoscenico da compagnie diverse e parlino lingue sconosciute».
E nemmeno gli è di aiuto la memoria digitale: ogni volta infatti che il fedele e ostinato Juvara esegue «una ricerca dentro quell’enorme giacimento, le cose cambiano e tutto ciò di cui siamo convinti si trasforma in un caleidoscopio abbagliante che rende ogni visione parziale». Frammenti, solo frammenti, di un perenne e caotico flusso in movimento e trasformazione in cui è immerso l’uomo: ancora Pirandello, sulla scia del pensiero di Bergson.
Tecnologia digitale e realtà sembrano a Soneri quasi antitetici, giacché sulle piattaforme è possibile confutare qualunque asserzione considerata fino a quel momento dogmatica e trasformarla in un falso universalmente condiviso.
Anche la scienza d’altronde è provvisoria, «oggi questa è la verità, domani sicuramente no». Pensiero che Soneri sembra condividere appieno con Sbarazza che qui torna per la terza volta, dopo Oro, incenso e polvere (Sperling & Kupfer, collana Narrativa italiana Frassinelli, 2007) e il già citato Reo confesso. Straordinaria figura di inconsueta purezza, nobile decaduto che ha rinunciato alla dimensione economica per la bellezza fine a se stessa consacrando la sua vita all’arte, consapevole che quella resta «l’unica cosa umana non provvisoria». E non solo, visto che Soneri gli è debitore anche di un suggerimento prezioso per sbrogliare il caso criminale, «lasciar perdere la successione logica dei fatti e affidarsi a ciò che appare incongruo ed eccentrico». «L’importanza dell’improbabile» insomma, «una via capace di condurre a una soluzione tanto quanto una sequenza debitrice della logica».
Varesi del resto, da sempre maestro in dialoghi vividi e di illuminante spontaneità, affianca Soneri a partner di indiscussa statura che, di volta in volta, riverberano e paiono amplificare le tematiche di fondo del romanzo e le convinzioni più profonde dell’autore sull’esistenza e la nostra attualità.
Ricordo ne La strategia della lucertola (Sperling & Kupfer, collana Narrativa italiana Frassinelli, 2014) il dialogo con il falsario sulla verità dell’arte; ne La legge del Corano quello con l’ideologo xenofobo che induce Soneri a riflettere su quanto gli ideali di sinistra siano ormai annacquati e privi di nerbo, dimostrandogli come i vecchi comunisti e i cattolici di un tempo, loro sì che avevano un nerbo culturale, non come quei rammolliti di oggi buoni solo a “comprare computer e televisori e a scrivere pensierini su Twitter; ne Gli invisibili (Mondadori, collana Il Giallo Mondadori, 2019) quello con Casimiro il Matto che negli arcani ma poetici scambi con Soneri finisce per incarnare il ruolo di unico nocchiero del Po, lungo quel “fiume così pagano” e tra quella sua gente “anfibia come le rane”.
E qui come dimenticare, oltre al già citato Sbarazza, i dialoghi con Zefirino Valenti, lo storico custode dell’Archivio di Stato che, pur in pensione ma afflitto dal vizio della memoria, continua a ingaggiare una solitaria e indefessa lotta per sottrarre almeno in parte il patrimonio cartaceo agli insetti divoratori della carta e, soprattutto, al disinteresse dei tanti. Eppure, consultando quei documenti, la storia della città acquisterebbe prospettive insolite e forse illuminanti. Parma però non ha memoria, non vuole averla, basti pensare che ha eretto un monumento alle barricate del ’22 dove non sono mai state alzate.
Sullo sfondo di una città mai così nebbiosa, mai così smarrente, Soneri si aggira in un sudario umido e tangibile, quasi incapace di riconoscere i luoghi e il tempo della sua stessa città. Cala greve quella nebbia,«con un soffio verso terra», questa volta priva della consueta, quasi onirica attesa di opportunità.
Maestro di dialoghi, Varesi, di suggestioni interiori e di ambiente. Maestro di stile. Voce del tutto identitaria nel panorama letterario europeo – letteratura, non semplice intrattenimento -, dal suo Lo stato di ebbrezza (Sperling & Kupfer, collana Narrativa italiana Frassinelli, 2015) ha forgiato un lessico che, seppur impressionato da Gadda e Celine, mostra una musicale inventiva del tutto estrosa e trascinante, in un periodare di lirica cadenza e di precisa intenzione.
Le sue storie poliziesche sono sempre «un pretesto per raccontare le contraddizioni del presente». Fatti di grande rilevanza sociale che riguardano tutti noi ma che non lasciano più un segno tangibile nelle coscienze. Ridestarle, secondo Varesi, è compito degli autori di noir, genere questo «che deve essere inquietante e a suo modo eversivo». Tale opinione è condivisa da altri grandi scrittori, come Carlotto e Fogli, ed è stata di recente ribadita proprio a Bologna negli Stati generali dell’immaginazione: coscienza sociale e lingua appropriata e riconoscibile, questi i dettami.
Qualità che di certo non mancano a Varesi che, in una veste di elegante intrattenimento, illumina temi universali e disturbanti della nostra attualità: la supremazia dell’apparenza sull’essere, il virtuale sul reale, il degrado social culturale e anche politico, il distacco sempre più netto tra cittadini e politica e, non ultimo, lo svilimento della cultura.
Vuoti di memoria va letto in quest’ottica, senza svalutare la dimensione d’indagine, impeccabile e trascinante.