William Raineri, da poco in libreria con Chi porta le ombre, SEM, ha cortesemente accettato di rispondere alle nostre domande
Passo subito alla prima domanda: leggendo le tue pagine ho avvertito echi di Fenoglio, in parte nel protagonista, Olmo Pietra, soprattutto nel suo atteggiamento lontano da ogni genere di retorica riguardo alla scelta della partecipazione alla lotta partigiana ( e qui mi viene in mente Il partigiano Johnny), e poi nelle relazioni tra gli stessi partigiani. È soltanto un’impressione o è un tuo apprezzamento particolare per gli scrittori della Resistenza (Pavese, Lajolo, lo stesso Fenoglio…)?
Johnny di Fenoglio, Anguilla di Pavese, Agnese della Viganò, Fausto e Anna di Cassola sono personaggi che hanno riempito di fantasia la mia adolescenza, mescolandosi in un luogo idealizzato fatto di campagne, montagne, boschi, piccoli paesi, vivendo e lottando a fianco di altri personaggi mai raccontati, quelli che io immaginavo uscire dai contorni rarefatti dello sfondo, unirsi ai protagonisti, assumerne le dinamiche di relazione con il territorio, il periodo, la condizione sociale.
Olmo può essere considerato in parte un coacervo di tutti loro, ma in lui alberga anche un animo tormentato e un oscuro progetto di rinascita che fa il verso a personaggi controversi e altrettanto magnetici di provenienza cinematografica, teatrale o fumettistica lontani dall’epica della resistenza.
La scelta del nome del protagonista, Olmo Pietra, è davvero nomen omen. Come è nato questo personaggio? Gli hai regalato qualcosa di te?
Olmo, al secolo Benito Pietra, ha un nome che coniuga tre volontà narrative che non ho mimetizzato: Benito, perché fosse subito chiaro il conflitto del protagonista nel periodo partigiano. Pietra come una storica fabbrica di cannoni di Brescia per ricordare il territorio. Olmo come l’albero che si distingue per l’inconfondibile attaccatura asimmetrica delle foglie e che veniva usato per cicatrizzare le ferite dei soldati.
Volevo un protagonista controverso e ho incontrato lui, ex ufficiale alpino, ex comandante partigiano, che ciononostante ha il rifiuto delle regole e dell’uniformarsi a un ideale, che sia comunista, fascista, socialista, anarchico…, abbracciandone anche i risvolti in contrasto con il proprio punto di vista, come se la verità possa essere solo e completamente da una parte, al di sopra delle necessità pratiche, del buon senso, e del benessere del singolo come della collettività.
Di me c’è poco in Olmo, condividiamo un certo spirito, la preferenza per il gelato al limone, e una discreta costanza. Nulla di più.
Enrico Carraro è l’antagonista di Olmo, un personaggio in apparenza minaccioso, in realtà ricco di sfaccettature e di umanità. E soprattutto non così diverso dal protagonista. Cosa ci racconti di questa “strana coppia” di investigatori?
Carraro è un gran bastardo, con una scala dei valori di dubbia moralità e un senso di giustizia tutto suo che lo fa sentire in diritto di graziare e perdonare. Ma non siamo di fronte all’umanità di un Montalbano, bensì al pragmatismo di un tutore dell’ordine infiammato dalla compulsiva volontà di raggiungere, anche a discapito delle regole e del bene comune, il proprio obiettivo. E’ un forte che depreca il debole e capisce e apprezza la forza. E’ un personaggio in bilico tra il bene e il male i cui risvolti malinconici svelano un cuore vivo ed emotivo, ferito dalla vita.
Carraro e Olmo stanno malvolentieri nella stessa stanza. Si capiscono, forse si stimano pure, ma di certo si stanno vicendevolmente sulle scatole.
Hanno poco in comune, a partire dallo schieramento dentro il quale militano, e ciò che li anima ha origine e natura del tutto diverse, eppure hanno dei punti in comune, ma per poterlo affermare uno dei due dovrebbe essere meno ipocrita.
Mi ha molto colpito la descrizione delle atmosfere, sia quella post bellica che quella della lotta partigiana e del Grembo. Qual è stato il lavoro di documentazione che ha portato a una ricostruzione così accurata? E come mai la scelta di ricorrere a nomi dei luoghi inventati?
Da disegnatore, da progettista di brand e storie aziendali, ho affinato la capacità di visualizzare ambienti, luoghi e azioni prima ancora di metterli su carta. Il resto è un po’ come copiare una scena chiara e dettagliata. Il database di immagini che ho accumulato nella vita, circa il periodo in questione, è il paniere dal quale attingo per cucinare le scene in prima battuta. Per “Chi porta le ombre” ho diviso in due le ricerche utili ad affinare e approfondire gli ambienti e le atmosfere. Del periodo partigiano ho consultato libri fotografici, siti web, blog, film, ristampe di pubblicazioni e una eccezionale raccolta di volantini e comunicazioni di rivolta: “Brescia Libera, Esce quando può e come può” un esempio assoluto di spirito ribelle e di coraggio che mi ha fatto sentire orgoglioso di una terra indomita che per la natura schiva di noi bresciani è poco raccontata e celebrata.
Per il periodo dopo guerra mi sono immerso nella cronaca, nei fatti di costume e nell’attualità raccontata in centinaia di settimanali e periodici che ho comprato nei mercatini e su ebay, pubblicati dal 1949 al 1951. Lì ho approfondito la parte prosaica della storia, ciò che non si trova nei romanzi e rende credibile e tridimensionale l’atmosfera e il sapore di quel periodo. Con l’occasione ho scoperto un giornalismo informale ma colto, tutt’altro che ammuffito e infarcito di termini desueti come si potrebbe pensare. L’odore del tempo si percepisce più nelle pubblicità, tutte ingenue, politicamente scorrette, crudeli, infide. E per questo stupende.
La val Tenebrina e il paese di Mugno non esistono. Potrebbero essere collocabili in un qualsiasi luogo lungo le alpi. Niente nel mio romanzo è davvero reale, a parte la torta di santa Lucia, il Bossolà bresciano. Di conseguenza i nomi sono inventati. E’ una scelta che ho fatto per varie ragioni: la pratica era essere libero di mettere e togliere ciò che poteva essere utile alla storia; la romantica è legata alla creatività visiva, trovo sia più divertente creare un mondo immaginario che descriverne uno reale.
Cosa ti ha spinto a raccontare anni così mitizzati e anche così controversi?
Volevo ambientare un noir in un tempo lontano dalla tecnologia e dalle complicazioni informatiche imposte alla detection dei giorni odierni, inoltre volevo rendere la vita difficile al mio protagonista, immergendolo in un periodo tragico, condizionandone la vita e imponendogli azioni che un pigro come lui si sarebbe volentieri evitato. Il periodo a cavallo della guerra era perfetto perché simbolicamente rappresenta un momento di cambiamento straordinario, con la distruzione dei bombardamenti (morte) e la conseguente ricostruzione (rinascita), che ben accompagnava l’evoluzione di Olmo.
Il tono di voce malinconico e ironico che caratterizzano il romanzo sono un timbro del luogo e del tempo, tuttavia, nell’economia del racconto, il contesto storico è centrale ma non determinante, non aveva senso ripercorrere sentieri già tracciati di retorica partigiana, indagine storica, o politica.
Rivedremo Enrico Carraro e Olmo in una nuova avventura?
Certo che sì. Mentre noi siamo qui a parlare, Carraro e Olmo sono nascosti in una automobile dei Carabinieri e discutono di un problema che rischia di travolgere la tranquillità paciosa della Val Tenebrina. Il mio intento fin dalla stesura del primo soggetto era di creare una serie. Si intuisce in alcune affermazioni di Olmo che c’è un’evoluzione in corso, che succederà qualcosa che sposterà in avanti la storia. La Val Tenebrina e la città di Mugno sono luoghi predisposti a generare eventi tragici, ospitare attività d’ogni tipo, personaggi curiosi, storie contorte. In un mix tra città, campagna, montagna. Un mondo – rappresentato graficamente nella mappa inserita nel libro – dentro il quale i personaggi che ho creato sono pronti per entrare in scena. Pini e Arenghi, con le loro battute strampalate, in primis.
MilanoNera ringrazia William Raineri e SEM editore per la disponibilità