Torna in libreria Domenico Cacopardo, uno dei padri nobili del giallo italiano, scrittore prolifico dal tratto raffinato, capace di regalare ogni volta un punto di vista diverso e disincantato sulla nostra società, offrendo uno spaccato fin troppo realistico del contesto storico in cui si dipanano le sue trame.
Un ritorno piacevole anche se stavolta Cacopardo, origini siciliane da parte di padre, presenta un’assoluta novità rispetto a buona parte dei suoi libri ambientati nell’isola, a cominciare dal titolo in francese: Pas de Sicile/Ritorno a Candora, – Basta con la Sicilia- (Ianieri Edizioni, Le dalie nere –Collana diretta da Raffaella Catalano e Giacomo Cacciatore), e dalla cover, che presenta lo stesso scrittore ritratto di spalle dal Maestro Gianluca Di Pasquale, con in primo piano la sua folta e candida chioma.
Un modo diretto per comunicare sin dalla copertina che non si parla di Sicilia, se non nei ricordi del protagonista, Domenico Palardo, alter ego del nostro autore anche dal punto di vista anagrafico e non solo per il passato da esperto di diritto e amante delle lettere.
Il romanzo, godibilissimo sino all’ultima riga, è ambientato nella Pianura Padana, nell’immaginaria Candora, quasi a voler richiamare un primigenio candore di cui lo stesso protagonista ne porta ricordo, avendo lavorato da giovane come segretario comunale in quel centro dal 1957 al 1962, quando poi, dopo aver vinto un concorso si era trasferito a Roma, dove aveva fatto carriera, diventando magistrato e consigliere di Stato.
Candora e gli altri centri del tielino, dal fiume Tielo, anch’esso immaginario, devono molto del loro diffuso benessere a Siro Sieroni che nel dopoguerra costruì un impero con le sue industrie alimentari di cui tutti beneficiano, avendo creato migliaia di posti di lavoro.
Nel primo secolo di vita come comune autonomo di Candora, (prima era una frazione di Valora sul Tielo), gli amministratori, tra cui il potente vicesindaco Vadalà di origini calabresi, vogliono celebrare tale ricorrenza organizzando tre mesi di festeggiamenti e la pubblicazione in volume della storia del comune. A Palardo, di cui tutti conservano eccellenti ricordi e conoscono anche la fama letteraria, viene quindi chiesto di coordinare i lavori degli esperti chiamati a scrivere i vari capitoli, individuare il personaggio che più d’ogni altro incarni lo spirito di Candora e immortalarne la storia con cui aprire il volume.
La scelta di Palardo, condivisa da tutti, non può non cadere su Siro Sieroni e per meglio conoscere l’uomo oltre all’imprenditore di successo, il nostro biografo intende raccogliere informazioni dirette, a cominciare dalla stretta cerchia dei familiari, figli e nipoti. I dati certi sono la prole con la prima moglie, Manuela Venturi, due figlie e un figlio morto prematuramente, e i quattro nipoti. C’è anche un altro figlio, Pantaleone, nato da una relazione adulterina con la giovanissima e bellissima segretaria, Lucetta Pagni, assunta quant’era ancora minorenne e dall’imprenditore presto concupita, giurano le malelingue.
Ma solo dopo la morte del figlio legittimo, Omobono, il figlio della colpa, Pantaleone, venne poi riconosciuto.
Una relazione extraconiugale consensuale o s’era consumato un caso di violenza messo a tacere dai danari di Sieroni?
Che ruolo ebbe nella tresca la precedente segretaria, anch’essa bellissima, e con cui gli anziani ammiccano al ricordo di lei e Sieroni?
La ricerca di Palardo si scontrerà con la diffidenza e la riluttanza dei familiari, sino a sfociare in aperte ostilità e minacce da parte dei nipoti dell’imprenditore morto e sepolto.
Qual è dunque il segreto che buona parte della famiglia non vuole che riemerga dal passato?
Quali ombre nasconde la fortuna di Sieroni?
Perché vi è tanto mistero sulla sorte della prima moglie di cui neppure figlie e nipoti vogliono parlare?
Più le colpe sono sepolte in profondità e più cupe su esse si allungano le ombre comincia a pensare Palardo e solo la sua caparbietà svelerà al lettore una verità inattesa.
Nella sua ricerca Palardo si scontrerà con attacchi fisici personali che lo costringeranno a tutelarsi ricorrendo a vecchi amici conosciuti nel corso della sua lunga carriera romana, e non mancherà neppure l’omicidio, come in ogni giallo che si rispetti. Tra un colpo di scena e i ricordi del passato intrisi di sicilianità, di sole e sale nel golfo di Letoianni sino alla baia sotto Taormina, riemergono anche incontri che ne hanno segnato la gioventù, come quello con Tommaso Besozzi, il mitico giornalista dell’Europeo che smontò la farsa montata dai carabinieri sull’uccisione del bandito Turi Giuliano e titolo “Di sicuro c’è solo che è morto”.
Un romanzo intriso di amara ironia che in qualche passo cede all’aperta indignazione e la voce di Palardo risuona alta, come a volerci ricordare i tempi grami che viviamo e ad ammonire su un’etica di cui si va perdendo memoria, senza dimenticare gli accenni alla storia che non lascia indenni neppure i piccoli e ameni borghi della memoria, dove il candore spesso è tale soltanto nei nostri giovanili ricordi.
Un romanzo che prende abbrivio da una storia realmente narrata all’autore e che riporta indietro, a un passato che non tutti amano ricordare. Anzi, in molti vorrebbero cancellare. Nella post fazione Cacopardo al suo cognome siciliano aggiunge quello della madre emiliana, Crovini, e spiega il ruolo avuto nella sua formazione anche dagli zii materni.
“Da tempo –dice Cacopardo a Milanonera – intendevo scrivere una storia in presa diretta. Per comodità era necessario un Avatar: ed è venuto fuori Palardo. Scrivere in prima persona ha prodotto una maggiore libertà espositiva e una indignazione soggettivizzata. Se dovessi indicare un riferimento mentale esso è rappresentato dalla trilogia della libertà di Jean Paul Sartre. Comunque ricostruendo questa vicenda ho provato sentimenti di indignazione. Ricordo en passant che a Palermo la testimonianza è rappresentata da Villa Ahrend, sequestrata a suo tempo alla famiglia omonima che aveva costruito un impero imprenditoriale in Sicilia. La scena in cui descrivo l’incontro con Tommaso Besozzi è reale. E posso dire che io c’ero anche se ovviamente ero uno spettatore piuttosto lontano dall’epicentro dell’incontro. Rispetto alla Sicilia, da cui me ne sono andato fisicamente vendendo nel 2005 la casa di famiglia, con l’anima sono quello che ero e sono orgoglioso della mia sicilianità ancorché parziale. Infatti in questo libro ho inteso valorizzare la mia metà-materna- emiliana e i valori che mi ha trasmesso e insegnato a partire dalla Resistenza. La copertina certo ha un significato simbolico. Ma non perché volgo le spalle alla Sicilia, ma perché volgo senza paura il mio volto eretico e senzadio, al futuro che la natura e il destino mi hanno apparecchiato.”
Nonostante la bella età che certo non nasconde, l’autore ultraottuagenario è pienamente operativo e sta scrivendo un nuovo romanzo, Malucori, ambientato a Sant’Agostino il paese ionico che ha inventato per Pater, suo precedente romanzo.
Domenico Cacopardo con origini siciliane (Letojanni) è nato a Rivoli (Torino) nel 1936 e ha vissuto in varie città italiane condotto dai vari impegni professionali, basti dire che è stato Consigliere di Stato sino al 2008. Vive a Parma ma non ha mai tagliato il cordone ombelicale con l’amata Sicilia. Esordì come romanziere nel 1999 con Il caso Chillé, ambientato nella Messina del primo Novecento, magistralmente ricostruita dall’autore. Fece seguito Giacarandà, ambientato nel 1747, con protagonista il marchesino Giulio Límiri intento a costruire una nuova magione nella baia sotto Taormina. La vicenda si complicherà con le feroci e sotterranee lotte tra domenicani e gesuiti. Suo anche il personaggio del sostituto procuratore Italo Agrò con cui ha firmato vari romanzi.
Lo scorso anno sempre con Ianieri pubblicò Pater, ambientato nel dopoguerra.
Autore dalla prosa elegante e arguta dove non difettano i rimandi letterari, con questo nuovo romanzo Cacopardo conferma il proprio talento narrativo, confezionando una storia che va oltre il genere giallo e attiene alle passioni degli uomini e alla loro sete di potere. Ogni capitolo si apre con un verso di Ungaretti. L’immortalità aulica della Poesia a fronte della miseria umana che perisce con gli uomini.