Piace giocare, a Gesuino Némus: con i lettori, con la storia, con sé stesso. Con i lettori, perché li trascina in un caleidoscopio di personaggi, luoghi, linguaggi; con la storia, perché la frantuma, destruttura, ricostruisce, spezzetta fino al finale mozzafiato; con sé stesso, attraverso eteronimi, alter ego reali e letterari, trasposizioni del sé e proiezioni metaletterarie.
Ma entriamo nel vivo della narrazione.
La vicenda prende avvio nel giorno in cui il primo uomo ha messo piede sulla luna, per concludersi un ventennio dopo. Il luogo è Televras, paese immaginario ma non troppo, che ricalca molte località similari dell’Ogliastra o della Barbagia. I personaggi, a parte il maresciallo che viene dal continente e mal si adatta agli usi e abitudini del luogo, sono per lo più tutti locali. Altra eccezione è il prof. Carlo Schengen, padre svizzero e madre lombarda, innamorato della Sardegna e dell’incanto del suo mare, dei suoi monti e dei suoi abitanti. Il suo ruolo è importante: per lo sviluppo dell’intreccio e per quello… del turismo sardo, con relativa massificazione e cementificazione.
Il maresciallo De Stefani, «come tutti gli Italiani che hanno avuto la ventura di vedere l’isola negli anni Cinquanta e Sessanta, non sapeva se il posto dove l’avevano comandato in servizio fosse il paradiso o l’inferno». Arrivato nell’aprile del ’65, in quattro anni nel circondario di sua competenza c’erano stati «2 sequestri, più di 50 furti di bestiame, 30 risse, 7 suicidi per impiccagione… 62 reati gravi e 0 colpevoli trovati. Troppo poco per sperare in una promozione»; il carabiniere semplice Piras, condannato a non poter fare il suo mestiere: «… non dovevano mandarmi qui nella mia terra. In qualsiasi altra parte d’Italia lo avrei già arrestato e mi avrebbero promosso. Ma qui no, non posso farlo il mio mestiere. Non dovrebbero mai mandare un carabiniere sardo in Sardegna o un friulano in Friuli. È tutto qui»; un intero paese, fatto di amicizia, inimicizia e omertà: Tore Baccanti e il suo cannonau, Bachisio Trudìno e la sua triste fine, Elvira la moglie, Peppino Golàvru sospettato a torto o a ragione, Antoni Esulògu e i suoi lunedì fuori posto, Matilde la sorella del prete, il dottor Poddighe, veterinario del paese che fa anche da medico… sono solo alcuni dei personaggi che animano Televras e la storia.
E poi ci sono loro, i protagonisti principali. Don Cossu il parroco, gesuita fino in fondo che abbraccia il motto di Sant’Ignazio di Loyola: numquam nega, raro adfirma, distingue frequenter (non negare mai, afferma raramente, distingui frequentemente) e i due bambini, Matteo e Gesuino, che in maniera diversa e speculare sono geniali e occupano l’intera scena. Solo loro conoscono i veri colpevoli e i reali moventi.
Infine, c’è lui – Gesuino Némus – alias Matteo Locci, narratore, autore, protagonista, alter ego… che tira le fila di questa storia, giocando con i personaggi e soprattutto con noi: facendoci l’occhiolino, ammiccando, seminando indizi, rivolgendosi direttamente a lettori o a personaggi reali o immaginari, assumendo punti di vista stranianti … insomma, divertendosi con noi, contro di noi e dietro di noi, alle nostre spalle. E dividendosi in due, non solo metaforicamente, tra Gesuino Némus, personaggio centrale che «conosce tutto e nulla dice», che ama scrivere e confondere la punteggiatura, matto per vocazione e non per scelta, e Matteo, geniale ed estroverso, cantante, filosofo e musicista, chierichetto, sagrista tuttofare… che riesce a mettere in difficoltà persino don Cossu, il Gesuita. I due bambini, Gesuino e Matteo, sono due facce di una stessa medaglia, anzi, sono l’unico occhio del ciclope che riescono a riprodurre abbracciandosi e guardandosi fin dentro la coscienza.
E solo nel finale, Gesuino (quale dei due: narratore o personaggio?) racconta la verità, la sua verità, su Matteo (quale dei due: narratore o personaggio?): nelle 95 tesi, rovesciamento di quelle luterane, ben più note, viene disvelato quello che è stato sapientemente occultato anche se, in qualche modo, già anticipato.