“Siamo dei sopravvissuti, Fede, questo siamo, e sopravvivere non è altro che una penosa attesa della morte”.
Non è facile esprimere un giudizio su un’opera come “La notte in cui suonò Sven Väth”, ultimo romanzo dell’autore piemontese Lucio Aimasso pubblicato dalla giovane e interessante realtà editoriale Casa Sirio. La difficoltà non deriva dal valutare la presenza o meno di scrittura e contenuti di qualità in questo libro ma, al contrario, dal tentare di raccogliere le parole più adatte a far emergere la bellezza violenta e spietata della storia che Aimasso è riuscito a raccontare.
Si parte con le indolenti riflessioni del protagonista, il quasi diciassettenne Federico Morelli, A.K.A. il Moro, che pianifica un’estate senza vacanze da passare per le strade della cittadina del nord Italia, soprannominata la Chiusa, assieme agli amici fraterni, i cosiddetti Soci: i quattro stronzi dell’Apocalisse. Le giornate e ancora più le serate dei Soci – Dennis, Sfinge, Pennelo e appunto il Moro – trascorrono tra canne di erba, capsule di MDMA e botte di qualsiasi altra sostanza possa portare a uno sballo apocalittico senza pensieri, senza futuro e apparentemente senza regole. Perché in realtà un decalogo, intitolato “Non voglio vincere”, il Moro e l’amico più stimato Dennis, lo scrivono per davvero e tentano di seguirlo.
I luoghi della Chiusa hanno nomi come Silver, il locale in cui il Moro recupera qualche soldo per finanziare i suoi vizi, oppure Nuovo Mondo, la discoteca dove da bravi technofolli i quattro ingeriscono grammi e grammi di droghe sintetiche, assistono a miserabili episodi che caratterizzano la vita di una generazione a perdere e dove l’ultima notte, nel gran finale, la leggenda vuole che debba suonare il divino Sven Väth. Nel microcosmo del Mondo i Soci si sentono a casa, mentre pisciano contro i banconi dei bar, fanno sesso occasionale con coetanee in cambio di una riga di coca oppure scatenano una rissa con i componenti di un’altra tribù lisergica.
Alle avventure adrenaliniche notturne, sempre velate di disperazione, si contrappongono le mattinate nelle aule di scuola o nello studio di uno psicologo dei servizi sociali, obbligatorio a causa di qualche storia di droga finita male, e soprattutto i fatti di casa. Una casa dove con la giusta dose di coerenza ognuno ha un soprannome. E quel soprannome corrisponde al Pagliaccio, per il proprio padre, e la Bellina, per la madre MILF che non vuole invecchiare e si ostina ad andare a caccia di ragazzini nei bar della Chiusa.
Aimasso dedica alcune delle sue pagine migliori al rapporto tra il Pagliaccio e il Moro. Sono le cronache del conflitto tra Walter Morelli, un vincente fattosi dal nulla che, fedele alla generazione al quale appartiene, non esita a violare le regole pur di raggiungere il risultato, e il figlio Federico, un perdente nato, sempre immerso in pensieri inutili come tutti gli altri bambocci rammolliti della nuova leva.
Ovviamente le cose non vanno come la logica sembrerebbe stabilire e, anche in “La notte in cui suonò Sven Väth”, arriva il momento di rimettere in ordine ciò che in ordine non è mai stato. In un vortice nichilista fatto di insoddisfazione, cinismo e violenza, da proverbiale puttana la vita presenta il prezzo da pagare per pareggiare i conti rimasti in sospeso: quelli con la famiglia, con le donne, gli amici e anche con le “paste”. Solo dopo aver guardato dentro l’abisso Federico il Moro riuscirà forse ad accettare che in una guerra, anche in quelle personali, combattute ascoltando la colonna sonora di Sven Väth, non ci sono vincitori né vinti. Ma solo vittime, sangue e lacrime.
La notte in cui suonò Sven Väth
Thomas Melis