Leggendo Il gatto di Simenon ci sentiamo inevitabilmente smarriti. Pensiamo all’ incomunicabilità, all’abitudine che ci lega, ci frena e ci paralizza, facendoci accettare situazioni paradossali, come quella che ha per protagonisti Emile Bouin e sua moglie Marguerite. Un matrimonio male assortito, conveniente solo per la vedovanza di entrambi: lei proviene da una famiglia dell’alta borghesia e aveva un marito musicista, lui è un ex operaio, che aveva sposato una donna del popolo con cui si divertiva ed era spensierato. I due non hanno nulla in comune: lui è rozzo, abitudinario, fuma il sigaro, soffrigge le cipolle e ama il suo gatto più di ogni altra cosa; lei è avara perché ha paura del futuro, ha l’appetito di un uccellino, non sopporta il gatto e detesta l’odore delle cipolle e dei sigari. La situazione precipita quando l’uomo trova il suo gatto morto in cantina, e pensa che la moglie lo abbia avvelenato. Si vendica strappando le penne della coda del pappagallo di lei. I due decidono di non parlarsi più e comincia una convivenza sempre più piena di sospetti e di rancori, con lo scambio reciproco di bigliettini laconici e stizzosi.
Quello che colpisce è la loro abulia, il loro crogiolarsi in una situazione che sembra senza via d’uscita. Le parole di Emile Bouin ci comunicano il suo senso di estraneità e di disperato disorientamento : “Perché era un vero e proprio sortilegio quello che aveva subito, che gli aveva fatto perdere il contatto con il resto del mondo. Incontrava le persone per strada, ma non le vedeva. Non sapeva più che cosa fossero una donna, un bambino, ridere o piangere. Viveva in un mondo di spettri, allo stesso tempo definito e inconsistente. Conosceva ogni minimo fiorellino della carta da parati del salotto, le macchie risalenti ai tempi di Charmois, le fotografie, il gradino della scala che scricchiolava e la screpolatura della ringhiera.” (pag.96).
La vita è scandita sia dalla ripetizione di rituali quotidiani e dall’odio che lega i due protagonisti. Quando l’uomo prova a interrompere il circolo vizioso in cui è invischiato lasciando la casa sarà inevitabilmente sconfitto: la sua mancanza di volontà e l’assuefazione a un ménage basato sul rancore lo portano di nuovo accanto alla donna per cui prova una pietà mescolata a disgusto, fino al momento in cui cala drammaticamente il sipario.
Simenon fa rivivere l’angoscia che ognuno di noi prova quando si trova, come i protagonisti, in situazioni stagnanti, da cui non riesce a emergere, pur provando infelicità. La domanda è: perché non riusciamo a reagire? Perché ci facciamo dominare dall’apatia e trasciniamo situazioni che ci portano solo afflizione? E’ qui il giallo dell’esistenza, che spesso non riusciamo a risolvere.