Educazione siberiana

Turbolenta infanzia ed adolescenza dell’autore, ultimo rampollo di una fiera stirpe di criminali siberiani, nella remota ma per questo non meno squallida Transnistria (ma dov’è?).
Lui è un figo da paura, e il libro è molto simpatico. Scritto in un italiano quasi elementare, probabilmente rifatto in sede di editing, visto che l’autore è di madrelingua russa, è però un libro che non molli fino alla fine.
Perchè? Perchè spalanca un mondo, inventa un’epica (vera, falsa? il dubbio rimane).

Questa società criminale (il termine è ripetuto talmente tanto spesso da perdere ogni connotato negativo e diventare quasi un mantra) è giusta, rispettosa e inflessibile. Le sue leggi sono durissime ma eque, possiede un linguaggio estremamente formalizzato, intriso di un esotismo religioso che gli dona un sapore bizantino e quasi misterico, rifugge gli orpelli, la ricchezza in quanto tale, si esprime negli elaborati tatuaggi anch’essi regolati da rigidissime leggi espressive. Ed è destinata a perire, sopraffatta dalla volgarità, dall’eccesso, dal sadismo, dalla crudeltà gratuita ed ingiustificata dei “nuovi” criminali, quelli che seguono i modelli europei, americani, quelli che rifiutano cioè l’antica cultura siberiana.

Paradossalmente, nonostante le efferatezze e un’inquietante “normalità” della violenza, è un libro più adatto ai ragazzi che agli adulti. I ragazzini lo adorerebbero, se i genitori avessero il coraggio di farglielo leggere. Ed è un libro con una fortissima carica educativa: Insegna lo spirito di sacrificio, il rispetto dei vecchi e dei disabili, l’attenzione per l’esperienza altrui, la misura, il disprezzo di sè, l’organizzazione e la pulizia.

Persino le spaventose prigioni russe sono presentate come comunità, organizzate secondo gerarchie prestabilite, finalizzate alla protezione dei deboli e, tutto sommato, non molto più sgradevoli del mondo esterno. A voler ben vedere, nonostante il suo fiero anticomunismo, l’autore persegue inconsapevolmente un’etica collettivista e fortemente anticapitalista. Antimoderna, anche: le città sono sempre sordide e fatiscenti, mentre la natura è bella, accogliente, madre. Nonostante tutto (e forse il bel Nicolai si arrabbierà), è un libro profondamente “russo”, intriso com’è dello spirito della Russia profonda, quella di Leskov, di Turgenev, la Russia dei piccoli e degli umili, della stirpe dell’eterno contadino russo, che le vicende della storia sommergono ma non travolgono. Al contrario dei loro omologhi americani, questi giovani criminali siberiani appena possono lasciano la città e vanno a pesca, passano le notti sul fiume a parlare sotto le stelle, trascorrono in barca interi giorni, lasciandosi possedere dalla bellezza della natura circostante.

E il seguito di polemiche sull’attendibilità storica, la questione se l’autore ci faccia o ci sia, finisce per perdere di interesse. Verosimile o no, Lilin ci ha ricreato un mondo: questo è il fine della scrittura.

donatella capizzi

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