Concorso Cocco e Magella – Continua l’incipit e vinci –
2° Classificato il racconto di Flavio Villani
UOMINI, SOLAMENTE UOMINI
Il 15 settembre del 2014, intorno a mezzogiorno, la professoressa Aurora S*, 34 anni, insegnante di Scienze, uscì dal portone principale della Scuola media di Lambrate, Milano, diretta come ogni giorno verso la stazione Centrale.Dopo aver salutato un paio di colleghi, Aurora fu vista allontanarsi da sola verso l’angolo compreso tra via Feltre e Piazzale Udine.
I familiari e l’ex compagno diedero l’allarme intorno alle quattro del pomeriggio, e le ricerche della Polizia iniziarono verso le diciotto.
Al momento della scomparsa indossava una giacca di velluto beige, una maglietta fucsia, dei jeans e un paio di scarpe da ginnastica.
Il commissario Rocco Cavallo finì di leggere il rapporto e alcuni ritagli di giornale, poi si soffermò sulle foto di Aurora, l’insegnante scomparsa da Lambrate un anno prima. Se n’era occupata perfino Chi l’ha visto. Ma nulla. Di Aurora neppure una traccia. E lui, il commissario, era ormai sull’orlo della pensione. Presto non sarebbe stato più un suo problema, ma gli incubi non distinguono fra commissari in servizio e quelli pensionati, e di questo il commissario Rocco Cavallo era certo.
Il commissario fissò ancora per qualche istante il viso felice di Aurora, lo sguardo mite e senza ombre, il corpo minuto, stretto in un abitino a fiori azzurri, primaverile. Scosse il capo, cercando di allontanare tutti i brutti pensieri.
Era felice Aurora quando le avevano scattato quella foto. Uno sprazzo di felicità congelata: ecco cosa sarebbe rimasto di lei per l’eternità.
Il commissario si tolse gli occhiali e chiuse il faldone. Lo sguardo si perse nel vuoto: meglio non guardarsi intorno, la sua stanza era ingombra di scatoloni, i mobili coperti da teli di plastica. Il suo successore aveva chiesto di “svecchiare” l’ambiente, e gli era bastata una rapida visita per impostare i cambiamenti necessari. Doveva avere qualche santo in paradiso per essere riuscito ad ottenere un imbianchino in carne ed ossa e mobili nuovi di pacca, ancora prima di essersi insediato al commissariato Città Studi.
L’imbianchino gli aveva lasciato un minuscolo spazio libero sulla scrivania per sbrigare le pratiche urgenti prima del pensionamento. Pratiche che i suoi subalterni gli portavano in mesta processione, come magi dallo sguardo contrito; e totale era il disaccordo fra quegli sguardi e le entusiastiche parole di congratulazione, i beato te, i vagheggiamenti di una vita nuova e senz’altro migliore. Come se la vecchiaia potesse competere in una qualche misura con la giovinezza, e uscirne vincente. Già, pensava lui scuotendo il capo, beato me. Poi riprendeva il suo lavoro, cercando di non pensare a nulla, fosse mai che una pratica rimanesse inevasa o che mancasse un timbro da qualche parte. Due settimane, pensò. E le parole questa volta gli uscirono dalla glottide stretta al pensiero di Aurora, sola, persa là fuori da qualche parte. Aurora che lui non era stato in grado di ritrovare. Due settimane. Un tempo ridicolo, ripensando alle indagini di mesi interi. Tutto si stava trasformando nell’incubo di un vecchio e in un faldone impolverato.
L’imbianchino rientrò puntuale dalla pausa pranzo. La sola presenza di un essere vivente nella stanza sarebbe stata sufficiente a fargli scappare via tutti i pensieri, ma l’ossessione per Aurora non lo lasciò neppure quando quello riprese a lavorare canticchiando.
Erano già le tre quando il commissario Cavallo si affacciò all’ufficio del suo vice, l’ispettore Gaetano Garamella. Presto sarebbe sceso il buio. Niente nebbia però. Una giornata di alta pressione, cielo cristallino, vento gelido e montagne innevate sullo sfondo. Milano sembrava perfino bella in un giorno così. Ma se voleva vedere con la luce gli ultimi luoghi impressi negli occhi di Aurora, doveva affrettarsi.
L’ispettore sollevò lo sguardo dalla Gazzetta, poi guardò l’orologio appeso alla parete: “Dove andate a quest’ora?”
“Ti ricordi l’insegnante?”
“E chi se la scorda?”
“Vorrei fare due passi dove è scomparsa, parlare ancora con qualcuno”.
“I ragazzi l’hanno fatto più volte. Niente di niente”.
“Lo so, ma noi vecchi siamo fatti così”.
“Volete che v’accompagno?”
“Ma no, prendo il 5, faccio un giro, due chiacchiere e me ne vado diretto a casa”.
“Commissà, c’è la macchina!”
“Sai che m’ha diagnosticato il dottore ? Gambe senza riposo. È meglio che cammini un po’, altrimenti stanotte la passo in bianco. Poi, la sai una cosa? I piedipiatti come me sono una specie in estinzione. Glielo devo a quella”.
L’ispettore distolse lo sguardo. La finestra dava sul cortile grigio.
“Il nuovo capo è uno scientifico, vero?”
“Sì, così dicono”. L’ispettore sembrò perdersi un attimo. “Un gran brutto pasticcio, vero?”
“Sì, proprio un pasticcio brutto”.
Il 5 si fece attendere più del solito, e quando arrivò era stracolmo. Il commissario si pigiò contro la gente, e le porte si chiusero sulla sua schiena. Poteva muovere solo la testa di lato. Accanto riconobbe un viso. Cercò di inquadrarlo. L’uomo spalancò gli occhi, e si girò di scatto verso le porte appena chiuse. Senza via di fuga si girò nuovamente verso il commissario e sorrise. Sono pulito, commissà, disse il tipo. Il commissario annuì. Scendi allora, va’, da bravo, alla prossima, fece lui.
In via degli Scipioni il commissario scese e prese al volo il 23 fermo al semaforo. Per fortuna era semivuoto, e il viaggio proseguì senza ulteriori incidenti fino a Rimembranze di Lambrate. Quando scese dal tram erano già quasi le quattro. Peggio di una tartaruga, pensò, guardandosi intorno. La luce iniziava a calare, presto sarebbe stato buio pesto.
La zona era stata battuta palmo a palmo. I negozianti interrogati più volte. Piccoli spacciatori e informatori torchiati al punto giusto. Ma nessuno aveva visto né sentito nulla. Era come se l’insegnante, uscita da scuola, fosse stata inghiottita da un buco nero. Nessuno si ricordava neppure di averla vista passare. E il tempo certo non giocava a suo favore. I ricordi dei testimoni sempre più opachi e confusi. Il commissario iniziò a camminare guardando i negozi: la farmacia, il fornaio, un elettrauto, una cartoleria. Le luci delle vetrine iniziarono ad accendersi. Camminando verso via Feltre sentì le gambe farsi rigide e pesanti. L’inutilità di quel giro si abbatté sul suo collo come un maglio. Una vita, pensò. È possibile che sia stato tutto inutile? Che solo i fallimenti, uno dietro l’altro, in coda come TIR alla dogana, rappresentano la vita di un uomo? Il commissario Cavallo scosse la testa, come per allontanare tutti quei pensieri fastidiosi, e si fermò davanti a un bar su via Ronchi, a pochi metri da piazza Udine. Era un bugigattolo, con una sola vetrina che non aveva mai notato prima. Quando più tardi ci ripensò non seppe darsi una spiegazione all’improvvisa decisione di entrare là dentro: forse l’oscurità, o magari solo la stanchezza.
Il locale era uno stretto budello vetusto, debolmente illuminato. Deprimente. Al banco, dietro al registratore di cassa una vecchia incartapecorita dalla faccia cattiva. All’ingresso del commissario, la megera sollevò gli occhi dalle parole crociate e lo fissò come se lì dentro di clienti non ne volessero.
“Che vuole?”, fece la megera.
“Un caffè”, rispose il commissario.
La donna lo fissò con più attenzione, guardinga. “La macchina è rotta, aspettiamo il tecnico”.
Il commissario annuì, come se l’avesse saputo ancora prima di entrare. Estrasse il tesserino e glielo sventolò sotto il muso. “Mi avete stufato con le vostre domande”, fece la vecchia. “Qui non sappiamo nulla di quella donna”.
“Sappiamo, chi? Quale donna?”
“L’Oscar ed io. Ne hanno parlato tutti, di quella”.
“L’Oscar?”
“Mio figlio”.
“Lo chiami che ci voglio parlare”.
Quando il commissario mise piede in casa si erano già fatte le otto. “Iniziavo a preoccuparmi”, fece Rosa, aiutandolo a sfilarsi il cappotto.
“Quei tempi sono finiti. Ho fatto solo un giro da piedipiatti”, fece lui, baciandole leggermente la fronte.
Rosa annuì e sorrise: “È pronto”.
Mangiarono in silenzio. “Cosa c’è?”, fece lei, “sei pensieroso”.
“L’uomo del bar… se solo la memoria… ”
Poi, all’improvviso ricordò, e fu come un colpo di pistola nel pieno della notte, la fiammata che squarcia le tenebre. “Le facce, le facce, no, quelle non me le scordo più”, gridò il commissario. Poi si precipitò al telefono: “pronto, Garamella? scusa l’ora, ma…”
Alla fine organizzarono perfino una conferenza stampa in grande stile a cui invitarono anche il commissario Cavallo che però, essendo ormai pensionato, non ebbe la parola. Ogni cosa deve arrivare a compimento, pensò lui ascoltando il fiume di parole del suo successore.
“…e infine voglio sottolineare come il commissariato da me diretto sia oggi provvisto di funzionari esperti delle tecniche criminologiche più avanzate: solo così il feroce assassino della povera insegnante è stato assicurato alla giustizia. Le prove scientifiche raccolte dagli investigatori di questo commissariato, analizzate dagli esperti del RIS, hanno finalmente incastrato la belva…”
L’ispettore Garamella si avvicinò al commissario: “Che stronzo… farà carriera”, gli sussurrò in un orecchio. “Se non fosse stato per la vostra memoria, non l’avremmo mai incastrato”.
“Gli anziani ricordano i fatti remoti, ma dimenticano quelli recenti: non potevo scordare l’arresto di uno stupratore seriale di trent’anni fa. Di questo discorso invece dimenticherò ogni singola parola”.
Quando poco dopo furono sulla porta i due uomini si abbracciarono. L’ispettore aveva gli occhi lucidi: “Che schifo, commissà”. Il commissario guardò Garamella negli occhi e sorrise: “Gaetano, non ti crucciare, in fondo siamo tutti uomini, solamente uomini”.