La notte che ho lasciato Alex



Hugues Pagan
La notte che ho lasciato Alex
Meridiano Zero
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Baltringue si nasce, Baltringue si muore, non c’è scampo”.

“Quella era una partita già giocata, perduta in partenza. Allora, il grande cielo blu, il mare immenso. Il sole opprimente. Figurarsi. Quegli improvvisi voli di chitarre, nostalgici, veementi, sbilenchi, tutti d’una autenticità, di un disprezzo insostenibili, che ti gonfiavano dentro con cieche vampate di speranza, di rabbia, di ferrei desideri e sangue nero. Nel tentativo costante di darti a intendere chissà cosa…” (Hugues Pagan, “La notte che ho lasciato Alex”, Meridiano Zero, Padova 2010, p. 5)

 
Parigi, Anni ’90. Scambiato, in seguito a un vecchio trauma, l’antico talento, con un solido disgusto nei confronti delle leggi che regolano il mondo dei vivi, un anonimo ispettore di polizia (solo per atteggiamento e gusti, si può ipotizzare che si tratti del Chess del romanzo “Quelli che restano”…) ha scelto un volontario esilio, richiedendo l’assegnazione permanente al turno di notte.

Uscito di scena, o spostatosi ai margini, seppellendo anche le ultime tracce di ambizione, l’uomo vive una vita fredda ma onesta, priva di illusioni.

Poi, la confusione nata intorno all’apparente suicidio di un senatore -ritrovato cadavere in una stanza d’albergo, dalla quale è stato sottratto un floppy disk pieno di materiale scottante sulla classe politica dominante- lo riporta al centro dell’attenzione dei suoi superiori: qualcuno ritiene che sia stato proprio lui a sottrarre il dischetto. E, di certo, la neonata relazione con Alexandra “Alex” Brandt, pericolosa ex moglie della vittima, non serve a smorzare i sospetti, né a chiarire la sua posizione…  

In “La notte che ho lasciato Alex, romanzo conclusivo della trilogia apertasi con “Dead End Blues” e passata per “Quelli che restano” (entrambi editi, in Italia, da Meridiano Zero), Pagan recupera il ruolo profondamente morale della letteratura noir, e, con mossa classica, ne scarica l’intero fardello sulle spalle del protagonista, “impegnato” in un cammino demistificante («La vita- si legge a pagina 31- non è altro che accettare il rischio di passare da un disinganno all’altro, fino a quello decisivo, l’ultima mascherata») e moralizzante.

Ed è proprio l’impegno del personaggio a trasferire la vicenda su una dimensione innegabilmente esistenziale: una dimensione il cui tratto decadente e negativo è legato non solo allo scontro con la realtà esterna, ma anche al riconoscimento, alla scoperta in se’, nell’interiorità, di quel seme del male che dall’altro si vorrebbe espungere.

La figura dell’individualista volitivo (la definizione non è mia, ma di Carlo Oliva), quella del detective grande peccatore tipico dell’hard boiled americano, si connota, così, di tratti desunti dalla tradizione letteraria dell’esistenzialismo francese, da Sartre a Camus, al proto-esistenzialista Drieu La Rochelle, la cui ombra, evocata attraverso stile e fraseggio (complice, ovviamente, l’ottima traduzione di Luca Conti e Jean-Pierre Baldacci), si fa palpabile in brani che ricordano il Diario Segreto e la scelta “metafisica” del suicidio come unica alternativa al fallimento. Nella declinazione paganiana, la preoccupazione di Drieu La Rochelle di ritrovarsi incapace di restare fedele a se stesso, si traduce, in pratica, nella spersonalizzazione finale del protagonista -ampiamente preannunciata dal suo anonimato-, che stravolge il senso dell’inatteso lieto fine (sull’argomento si veda anche l’illuminante postfazione di Luca Conti).

Identità o morte, insomma… ma, tanto per dirla con una delle lapidarie intuizioni del protagonista, “Su strade diverse, tutti quanti ci avviamo alla stessa identica destinazione” (Ivi, p. 37). 

La vicenda è narrata in prima persona, con un discorso indiretto libero -coniugato all’imperfetto e al passato prossimo-,  che cede, qua e là, ai dialoghi, creando dei veri e propri scorci di senso; per il resto, il lettore è chiamato a partecipare attivamente, per trasformare in un insieme coerente il confuso rievocare di chi re-interpreta per se stesso avvenimenti passati, ma sempre attuali. E il risultato è sconsolante, lucido, sorprendente, perfetto.  

Deprime, ma non stupisce, che Pagan abbia abbandonato la scrittura: molto oltre questo La notte che ho lasciato Alex” –che, pur concepito in maniera molto diversa, “guarda in su” dagli abissi sartriani del miglior Derek Raymond- non si poteva andare… e, stando così le cose, anche una “semplice” riedizione si trasforma in un’occasione imperdibile.

Fabrizio Fulio Bragoni

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