Mi interessa indagare il male che è in ciascuno di noi. Intervista a Aldo Pagano – Motivi di famiglia

41XRY24H0nL._SX324_BO1,204,203,200_Aldo Pagano è attualmente in libreria con Motivi di famiglia, Piemme, un giallo che esplora il mondo di oggi e le dinamiche famigliari.
Ciao Aldo,vorrei partire da una delle dediche e dai ringraziamenti. Ti va di regalarmi  un tuo ricordo di Tecla Dozio?

Ho conosciuto Tecla tardi, quella della Sherlockiana è un’epopea che non ho vissuto direttamente, lei si era già trasferita in Toscana, ma il nostro fu un rapporto che sin da subito superò l’aspetto professionale complici, anche, le rispettive operazioni chirurgiche affrontate nello stesso periodo. Il ricordo è legato ai giorni passati da lei a Casette d’Alebbio per l’editing per Todaro, e non è un episodio in particolare ma proprio tutto quel periodo che per me fu di impetuosa crescita, non solo come scrittore. La cura maniacale per la ricostruzione investigativa imbastita sulla sua conoscenza enciclopedica del genere, la capacità di penetrare il romanzo e i personaggi per arrivare al nucleo profondo che aveva smosso l’urgenza di raccontare quella storia, le litigate furiose sul testo provocate da una passione smisurata per il suo lavoro e per il mestiere dello scrivere. E questo era il lavoro. Poi c’era il suo amore per la cucina e un fantastico pollo al curry preparato per cena, i suoi racconti divertenti o crudi che attraverso la lettura di un dettaglio illuminavano l’anima dei diversi attori, la sua intelligenza che brillava nelle analisi notturne davanti al camino spento, con un pinot nero speziato, parlando della nostra vita privata. Tanti ricordi, insomma, di una donna e di un’amica rara.

La famiglia è al centro del tuo libro, come si evince già dal titolo. Una volta era considerata l’esempio da seguire, ora sembra che non sia più così…
La nostra generazione ha fallito come genitore?
Non so se si tratti di un fallimento, Cristina, ma certo si è rotta ufficialmente la linea di difesa comune fra adulti nel processo di crescita degli adolescenti. Ai tempi del liceo, per dire, ho avuto un professore di italiano che non solo era incapace di insegnare ma aveva seri problemi ad articolare una frase senza commettere errori, eppure i miei non esitarono un istante a difenderlo dalle mie accuse di incompetenza; oggi, al contrario, i genitori sono quasi sempre e a prescindere dalla parte dei figli, trattati come piccole star da proteggere dal nemico esterno, un po’ come accade con la madre della vittima nel mio romanzo. Ciò che non è solo fallito ma anche sicuramente dannoso è il modello di famiglia tradizionale, che pure qualcuno vuole reintrodurre; parlo della famiglia intesa come comunità chiusa, arroccata a difesa dei propri interessi e con la donna ridotta al ruolo di fattrice. Un modello di questo genere è funzionale a una società che ha paura di aprirsi e accogliere la diversità e il nuovo, e cioè esattamente il contrario di ciò in cui io credo.

Il protagonismo è uno dei mali di oggi?
Assolutamente. Abbiamo la presunzione di rappresentare ogni momento della nostra vita, fotografandolo e postandolo sui social, i quali sono ormai diventati la vera realtà per molti di noi, al punto che vai a un concerto e non guardi il concerto ma guardi dentro l’obiettivo del tuo telefonino che inquadra il concerto perché l’importante non è solo esserci ma lasciare il segno imperituro della tua presenza. E qui non c’entra niente il dannunziano vivere la propria vita come un’opera d’arte, dal momento che la vita è il concerto e solo marginalmente io che riprendo il concerto. Crediamo, o fingiamo di credere, all’eccezionalità di ogni nostra presunta singola performance. Se fossi complottista, penserei che esiste un grande vecchio che soffia sul nostro individualismo per polverizzarci, separarci e ridurci in solitudine allo scopo di continuare tranquillamente a comandare, ma siccome non sono complottista penso semplicemente che siamo ridicoli.

I giovani d’oggi sono  inadeguati o sono invece anche troppo adeguati alle dinamiche della società moderna?
L’idea che mi sono fatto parlando con diversi ragazzi di tutta Italia prima di scrivere il romanzo, è che la loro inadeguatezza sia assolutamente identica a quella che sentivamo noi alla loro età in una società con dinamiche tutte diverse. Pure noi, come loro, avevamo curiosità ma anche paura verso il mondo degli adulti; la differenza è forse che noi potevamo contare, nel bene e nel male, sull’autorevolezza dei genitori mentre molti dei ragazzi che ho sentito io manifestano questa esigenza che tuttavia non trova risposta da parte di genitori che per primi sentono il peso della loro inadeguatezza. Il paradosso è naturalmente che questa società e le sue dinamiche le abbiamo create noi, non loro, eppure noi non siamo in grado di comprendere tutti gli sviluppi positivi che possono produrre i ragazzi con gli strumenti che hanno a disposizione; ci limitiamo a valutare i fattori di rischio, esaltando le negatività. Io penso invece, per rispondere alla tua domanda, che i giovani di oggi possano essere molto più responsabili e adeguati di quanto non abbiamo dimostrato di esserlo noi.

A un certo punto del libro c’è un dialogo interessante sul noir e sul male descritto nei libri e quello reale. Qual è la tua opinione? Davvero molti personaggi di noir sono solo una caricatura del male?
Francamente, a me interessa di più indagare sul male che c’è in ognuno di noi. Mi rendo conto che è più fastidioso riflettere sul fatto che io o tu, posti in certe condizioni di emergenza, potremmo tirare fuori una malvagità che preferiamo considerare non appartenerci, ma secondo me il ruolo di uno scrittore è fondamentalmente quello di porre domande antipatiche e possibilmente originali. Così mi intriga un autore che, al contrario, fa emergere l’umanità di un criminale della guerra civile nell’ex Jugoslavia, e qui parlo di Montanari, mentre mi fa sbadigliare l’idea che quello stesso criminale sia solo la summa della ferocia, uno che violenta bambini e poi li uccide e gioca a calcio con la loro testa. Nel dialogo a cui ti riferisci, comunque, Emma è la solita radicale e perciò spara a zero contro quella che lei definisce caricatura del male; io la penso più come Edoardo, lo scrittore con cui Emma parla, che invece ritiene l’iperbole uno strumento per analizzare la realtà, strumento che diversi autori sanno usare alla perfezione.

Parliamo della tua scrittura. Una sintassi interessante, con alcuni punti messi in posti non usuali e un grande uso di avversative. Anche il tuo libro vuole essere avversativo?
Mi fa piacere che tu abbia notato alcuni aspetti inusuali della punteggiatura e l’uso delle avversative. Mi sono orientato sulle avversative, in particolare, perché mi parevano una buona scelta per rappresentare anche ritmicamente, se così posso dire, il concetto di dubbio, di equilibrio instabile. Il fatto che tu lo abbia rilevato significa che ho colto nel segno. Quanto al romanzo, non vuole essere per forza avversativo ma se considero lo spirito del tempo e mi fermo anche solo al titolo, Motivi di famiglia, è avversativo dibbrutto, come dicono i giovani.

Perché hai scelto di inserire nel libro un tema delicato come il fine vita e gli hospice?
Per una ragione personale e per un’altra civile. Quella personale è legata alla scelta coraggiosa di Tecla che, dopo aver lottato contro il cancro con determinazione, ha deciso per il suicidio assistito in Svizzera perché era convinta, e giustamente, che accettare una sofferenza inutile sia terribilmente stupido. La ragione civile è che la situazione italiana, anche per ciò che riguarda il fine vita, è da Paese incivile. Siamo tutti talmente performanti, e che Dio perdoni il termine idiota, che preferiamo cancellare la morte; la morte e la sofferenza, come recita una battuta nel romanzo, sono i veri tabù di oggi, altro che il sesso. Dico questo perché pure persone a me molto care, che frequento anche ogni giorno, ignorano l’esistenza stessa e il ruolo degli hospice. Perché di questo tabù non si parla. Perché si propina ignoranza al cittadino-suddito. Perché nel nostro incivile Paese sono già passati nove mesi dei dodici concessi dalla Corte Costituzionale al Parlamento per esprimere uno straccio di legge che permetta agli italiani di autodeterminarsi, e i nostri politici non hanno ancora proposto niente. Perché nel nostro incivile Paese conta di più un’emergenza percepita ma inesistente come quella dell’invasione di migranti che non un’urgenza vera, che riguarda o riguarderà molti di noi, come il fine vita.

Parli di narcogiornalismo e Schadenfreude siamo una società di disinformati guardoni e sadici?
Io amo le sfumature, sono un vecchio diplomatico, non direi mai che siamo una società di disinformati guardoni e sadici. Direi piuttosto, da vecchio diplomatico, che viviamo in una società in cui disinformati guardoni e sadici hanno da qualche anno abbandonato qualsiasi vergogna, sono usciti dalle fogne e prendono impunemente il sole sotto lo sguardo di tutti. Del resto, viviamo in una realtà in cui giornalisti che scrivono scientemente il falso vengono premiati con un seggio al Senato, oppure continuano a pubblicare i loro articoli sui giornali, oppure diventano eroi perché rischiano giustamente la galera. Non si inventa più niente, da noi, per la semplice ragione che abbiamo già inventato tutto. E avremmo anche inventato un termine apposito che definisca il gusto morboso per il dolore altrui se, a differenza dei tedeschi, avessimo il dono della sintesi e fossimo meno ipocriti.

MilanoNera ringrazia Aldo Pagano per la disponibilità

La foto di Aldo Pagano è di @Sara Sfligiotti.



Cristina Aicardi

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