La casa editrice Stampa Alternativa è specializzata in pubblicazioni “scomode”, spesso trascurate o volutamente occultate dall’editoria maggiore. In tempi di dottrina di guerra permanente, non è un caso che il nuovo romanzo di Riccardo Brun venga pubblicato nella collana “eretica”: la narrazione, che assume il sapore di un’invettiva antimilitare e di un poema sull’infanzia tradita, si svolge infatti sullo sfondo di un paese dell’est europeo occupato da eserciti stranieri. Con La città di sotto la produzione di Brun si attesta in effetti su di una linea “civile”, che non abbandona mai il terreno della inventio narrativa per farsi giornalismo, eppure conserva una forza e un tenore da inchiesta sociale. Se Carissimo L. (Guida, 2000), romanzo d’esordio scritto a quattro mani con Massimo Ricciuti, era essezialmente una storia esistenziale dall’atmosfera tondelliana, è con Genova Express (Manifestolibri, 2002) che Brun sviluppa appunto un discorso politico, seppure intendendolo sempre come sfida, come interrogazione incessante, come un mettersi in gioco pur non potendo prevedere l’esito del proprio “impegno”.
La storia (un “noir dell’est”, come recita il sottotitolo) è quella di Vanja, un “ragazzo di vita” che, come tanti, trova rifugio nel sottosuolo della città ed emerge solo per improvvisate sortite volte al furto o al saccheggio. Assieme a tanti suoi coetanei, Vanja è una sorta di prigioniero di guerra, messo in cattività da chi ha saputo arricchirsi sulle sue spalle con molta abilità e poco spreco di forze. Parallelamente alla sua vicenda, si svolge quella di Maila, abitante della “città di sopra”, anch’ella abbandonata dagli adulti e costretta a sopravvivere grazie a infiniti compromessi. Le storie dei due ragazzini si incroceranno con quelle di un gruppo di anarchici in lotta contro il potere, da cui riceveranno non solo soccorso ma anche educazione all’autocoscienza e alla progettazione del proprio futuro. Scampati all’arresto delle forze dell’ordine al soldo degli interessi imprenditoriali, Vanja e Maila dovranno confrontarsi con la sfida più grande: la fuga dal loro paese e la ricerca di una “terra promessa”.
Il romanzo di Brun sviluppa con molta sincerità, senza rinunciare al lirismo, una storia che può definirsi allegorica. La città senza nome assume infatti, nell’orizzonte globalizzato, una valenza universale. I bambini che popolano La città di sotto potrebbero abitare ovunque, a Sarajevo come in estremo oriente, in Africa come nelle periferie napoletane: l’Aurolac che inalano per stordirsi è identico alla colla di cui abusano i coetanei delle favelas brasiliane. Gli sfruttatori sono gli stessi ovunque. La miseria è sempre una. D’altro canto, i nomi dei molti personaggi che popolano la narrazione non hanno univoca paternità linguistica: Vanja, Maila, Pietro, Dragan, Rafael appartengono ad etnie e culture anche molto lontane tra loro. Brun sembra utilizzare l’unico vero dogma no-global: pensare globalmente ed agire localmente.
Ciò significa anche ricoventire l’immaginario corrivo: con la citazione parodica dalla letteratura e dal cinema, ad esempio. Come accade per il tema del popolo rifugiatosi nel sottosuolo mentre il mondo esterno è ridotto in pezzi, che non può non rimandare a molteplici antecedenti hollywoodiani (viene in mente innanzitutto il futuristico e allucinato Mad Max di George Miller). Oppure come la scena finale del tentativo di approdo clandestino in Italia su di un gommone, che si riallaccia al lungo filone cinematografico sul “naufragio”, ma ridicolizzandone il portato melodrammatico e trasportandolo su di un piano di nuda verità. La struttura de La città di sotto è d’altronde fortemente cinematografica (il romanzo nasce come ideale ampliamento di un cortometraggio del 2003 – Racconto di guerra – co-sceneggiato da Brun).
Il campo letterario della narrazione, per dirla con Lotman, è diviso verticalmente in due: la “città di sotto” (l’inferno fognario e oscuro dove vive Vanja) e “la città di sopra”, illuminata dalla luce solare e dagli scoppi di granate. In questo senso, non c’è redenzione in nessun posto: le due anime della città hanno leggi proprie, ma entrambe sono in stato d’assedio. C’è una guerra che si combatte con le armi da fuoco per la presa del potere, e c’è un’altra guerra che si combatte a mani nude per la sopravvivenza. Il passaggio da un mondo all’altro, come spiega la narratologia, è irreversibile e impone l’adeguamento alle nuove regole, pena la morte. In effetti, Vanja sembra perennemente in bilico, attratto da entrambi i mondi: è come se il suo percorso formativo muti continuamente direzione e non riesca a trovare compimento. Non è un caso che, contrariamente all’Oliver Twist di Dickens, il protagonista del romanzo di Brun non giunga alla redenzione finale e all’inquadramento borghese. Ogni orfano ha sempre un istinto fondamentale che lo spinge verso la ricerca di una famiglia: ma in Vanja questo istinto è distorto dalla necesità di sopravvivere, incarnata dall’apparizione fantasmatica del Signor Blovo. In qualsiasi situazione si trovi, Vanja “si sente” istintivamente dalla parte dei più forti, solo perché essi, per quanto malvagi siano, offrono maggior protezione. Anche quando Vanja decide di abbandonare la “città di sotto” – un po’ per caso e un po’ per scelta – il Signor Blovo, quasi freudiana materializzazione del suo Super-Io, tornerà a insinuare dubbi e incertezze. E il distacco da questa sua proiezione interna, descritto da Brun con grande lirismo, rivelerà il tratto più autentico e umano di Vanja: «Allora è successo. Prima o poi doveva succedere. Io non ti servo più, ragazzo. Non servo più a niente. / Sei stato il mio migliore amico, signor Blovo. / È stato bello essere tuo amico, ragazzo. Vieni qui, abbracciami. Da bravo. / […] Signor Blovo? / Dimmi Vanja. / Tu non esisti, vero? / Il Signor Blovo sorride, mentre le lacrime scendono copiose e gli bagnano tutta la camicia, e mentre sorride diventa trasparente, e lentamente scompare».
Brun si inserisce pienamente sulla scia di quei narratori napoletani (vengono in mente innanzitutto Braucci, De Silva e Saviano) che esaminano i luoghi rimossi e marginali della realtà, e fanno leva sul potere testimoniario della parola. Sebbene la letteratura non abbia il potere di modificare il reale, ha comunque la forza di denunciarlo, il coraggio di non rassegnarsi al già dato. (angelo petrella)
Riccardo Brun – La città di sotto – Stampa Alternativa GIUDIZIO: