“La forma della mia (felicità), invece, è il viaggio», risponde intimidita Sandra Petrignani a un indiano che le indica la moglie e i figli come “forma terrena della mia felicità”. La frase è tratta dall’ultimo libro della scrittrice piacentina, Ultima India (Neri Pozza, 14,50 euro). Devo essere sincera: il libro non mi ha entusiasmato. Soprattutto quando parla di santoni e Sai Baba. Però la Petrignani “ritrova se stessa” (un paradosso in un libro che è la solita ricerca di se stessi in India) quando sfodera la sua ironia e la sua lucidità. E cioè quando, per esempio, racconta in modo esilarante il tentativo fallito della sua guida-autista Ayyappam di farla entrare in un tempio vestita da indù. Oppure quando, fa commentare al suo amico Marc: «Sì, Bombay è il nostro futuro… con il suo esercito di diseredati e i suoi miliardari esibizionisti, il traffico incessante, il rumore insopportabile, le prostitute bambine, gli odori nauseanti, l’aria fetida, è il nostro futuro». Disarmante, ma convincente.
Resta il viaggio come idea (occidentale, ma non solo) di felicità: era quello che scriveva la grande esploratrice Ella Maillart settanta anni fa. Però le donne sanno che “viaggiare” vuol dire anche lasciare, abbandonare, e poi rimpiangere.
E su questo leit-motiv si basa un romanzo interessante (anche se non appassionante): La viaggiatrice, della scrittrice cubana Karla Suárez (Guanda, 16,50 euro). Racconta di Lucia e Circe, anzi soprattutto di Circe, e del suo Giornale di bordo, ovvero parla del dramma di peregrinare lontano da casa, sempre precarie, sempre fuori posto, sempre in attesa che tutti si sistemi.
Quello che mi interessa è che il racconto del viaggio al femminile è “diverso”. E per ciò stesso, spesso, sottovalutato. Per non parlare, ovviamente, delle viaggiatrici donne, giudicate al massimo una curiosità. Per fare un esempio: il 9 luglio il Corriere della Sera è uscito con un trafiletto sul fatto che ci sarà una spedizione nel Pacifico “per risolvere il mistero di Amelia Earhart”. Che un mistero esista, a proposito della morte in mare, il 2 luglio 1937, della più celebre trasvolatrice donna e del suo assistente, lo sostengono in pochissimi.
In particolare un tale Ric Gillespie, che il Corriere accredita senz’altro come “a capo della spedizione Usa”. In realtà basterebbe aprire il Washington Post per scoprire che questo Gillespie tenta da anni di sostenere che la Earhart non morì in mare ma raggiunse un’isoletta, Nikumaroro, e lì, in seguitò, spirò.
Gli storici lo considerano un furbo e un visionario. Il trafiletto è confuso: parla di esame del Dna su ossa che sono scomparse da tempo. Insomma, nessuno si è preso la briga di verificare. Per la “Lindbergh donna”, forse, non ne valeva la pena.
Il prossimo appuntamento con WW di Valeria Palumbo è per giovedì 26 luglio. Come ogni volta, saranno veri DiRottamenti, percorsi inaspettati su territori già battuti.