Semeiotica, che passione…

Cominciamo dal principio. Se nel titolo avete letto “semeiotica” – no, non mi sono sbagliato – avete letto correttamente. Cioè non avete pensato, magari inconsciamente, a un errore di battitura: vi siete limitati a vedere ciò che è. Se, invece, non vi siete accorti dello svarione e avete automaticamente adattato la prima parola a “semiotica” – per via del contesto, della logicità della frase o della coerenza dell’assunto – in realtà avete tradito il testo scritto per conformarlo a una vostra ipotesi di concetto.

La differenza fra “semeiotica” e “semiotica”, infatti, non è solo in una vocale.

Il dizionario Garzanti riporta le seguenti definizioni:
– Semeiotica: “parte della medicina che studia i sintomi delle malattie a scopo diagnostico”.
– Semiotica: “la scienza generale dei segni, linguistici e non linguistici, per mezzo dei quali avviene la comunicazione […]”

Il piccolo gioco che vi ho appena proposto è solo un esempio. Purtroppo, però, qualsiasi testo scritto – applicando il ragionamento alla letteratura – comporta che vi venga realizzata un’opera di lettura e successivamente di comprensione. Se la lettura, in quanto tale, è già minata da “ipotesi di concetto” legate – scientemente o meno – al fruitore stesso dell’opera, quante sono le possibilità che il livello successivo, quello della comprensione, venga realizzato oggettivamente?

Nel racconto “La biblioteca di Babele” di Jorge Luis Borges – protagonista de “Lo spazio nero” numero 23 – esistono moltissimi passaggi che possono generare questo tipo di problematiche. E soprattutto, non ne esiste – a mio avviso – una loro comprensione univoca, completa e oggettiva.

E questo, anche dove sembra regnare la certezza.

Ammetto che la mia copia di “Finzioni” sia un po’ datata: al suo interno non vi sono note né tentativi di chiarimenti. In alcune edizioni più recenti, invece, se ne trovano. La loro presenza, però, non ne garantisce l’esattezza. Partiamo dal numero 25. Al e Leah, inizialmente, affermano nei commenti che 25 è derivante dalla somma di 22 più 3: “Ventidue sono i venticinque simboli ortografici, meno il punto, la virgola e lo spazio (le uniche non-lettere indispensabili per scrivere un testo ben leggibile).”

La spiegazione, ho scoperto poi, è citata in una nota al testo di una moderna versione del libro. Peccato che non sia propriamente esatto. Leah, successivamente, scrive anche: “[…] le lettere ebraiche sono sì 22, ma le tre in più forse non sono i segni d’interpunzione. Ho controllato e in ebraico antico sono solamente 2: lo spazio e una specie di due punti che in realtà dividono solo i vari versetti […]. Sempre Leah, poi, aggiunge anche: “[…] Pare che anticamente esistessero altri tre suoni-lettera, ma devo indagare.”

Il fatto che un’interpretazione venga privilegiata non le conferisce automaticamente lo status di “reale”. Al massimo rimane “verosimile” o “plausibile”. Ma ci ritorneremo sopra in un prossimo appuntamento de “Lo spazio nero”.

Allora cosa significa quel 25? Possiamo ipotizzarlo ma per esserne certi dobbiamo evitare l’errore che sta alla base del tradimento del testo: il cercare di adattarlo alle nostre ipotesi di concetto.

Ecco perché è così necessario trovare delle “chiavi”. Dei fulcri certi e in/dis/pensabili per la comprensione e l’acquisizione del significato dello scritto. O almeno, di uno fra quelli possibili.

Borges ha lasciato molte chiavi nel suo testo. Leah, grazie al suo impegno, ne ha individuate alcune. Altre rimangono ben nascoste.

Io, per esempio, sul 25 ho una personalissima opinione. Mi piace pensare che siano le 22 lettere dell’alfabeto ebraico e i 3 “qerê” introdotti dai Massoreti per correggere il Testo Sacro nei punti dove ritenevano fosse sbagliato.

Correggere il Testo Sacro equivale a correggere l’incorreggibile. Un altro ossimoro legato alla conoscenza e – se così fosse – una chiave che ben si adatta a reinterpretare il racconto di Borges.

Ma ho come l’impressione che ne riparleremo. Almeno per 40 volte.

Fabio Fracas

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