A distanza di tredici anni da Zeder, Pupi Avati realizza nel 1996 con L’arcano incantatore un horror con venature thrilling ambientato nel XVIII secolo. Se l’intera vicenda è calata in un ambiente terribilmente gotico, che rivela le paure ancestrali nascoste nella più profonda tradizione rurale, l’andamento della trama è un giallo da manuale, dove il responsabile di una catena di delitti e la sua reale identità verranno scoperte solo nel finale ad alta tensione.
Bologna, metà del XVIII secolo: Giacomo, un giovane seminarista, reo di aver costretto ad abortire la ragazza che aveva messo incinta, è costretto a lasciare di nascosto la città per evitare l’arresto. Grazie a un’oscura rete di complicità riesce a ottenere l’incarico di segretario di uno stravagante monsignore, esponente di una famiglia altolocata, esiliato in un eremo dell’Appennino tosco-emiliano per le sue pratiche esoteriche pericolosamente inclini alla magia nera. Giunto nella tenebrosa dimora, il giovane si accorge ben presto che il suo predecessore, Nerio, morto da poco, era in realtà il devoto seguace di un culto diabolico, al quale era stato iniziato alle pratiche empie contenute in un libro che sembra essere scomparso.
Affascinato, quasi soggiogato dal fascino di monsignore, Giacomo si presta ad assisterlo sia come corriere, latore di lettere scritte con un codice indecifrabile, indirizzate a un corrispondente altrettanto misterioso, che come testimone di orridi esperimenti. Su tutto incombe la figura di Nerio, forse responsabile della scomparsa di due novizie, che aveva cercato di estorcere al suo padrone i segreti dei suoi riti malvagi. È forse grazie a uno di essi che l’uomo sembra sia apparso a una prostituta? Cerca di scoprirlo anche un prete dell’inquisizione, giunto apposta da Bologna. Farà una brutta fine, la stessa a cui Giacomo scamperà miracolosamente, ma solo per arrendersi davanti all’evidenza di un male invincibile.
L’intera storia si svolge come un lungo flash-back, narrato dal protagonista, Giacomo (Stefano Dionisi), a un parroco. Buio, addirittura tenebroso, il film dimostra come ormai il regista padroneggi con maestria le predilette tematiche che affondano le radici nelle più orrorifiche tradizioni contadine dell’Emilia, quelle che si tramandano nei racconti accanto al fuoco, quando fuori tira un vento freddo e potente che fa sbattere le imposte delle finestre.
Così il luogo nascosto fra i boschi dell’Appennino tosco-emiliano è una specie di antro rivestito di volumi, librerie in fuga verso il soffitto, dimora del sapere universale sulla magia e l’arcano, custodito gelosamente da quel monsignore (un immenso Carlo Cecchi), scampato a punizioni peggiori grazie all’influenza della sua altolocata famiglia. Monsignore finirà esiliato, senza contatti con alcuno se non con colui che verrà destinato (condannato?) a fargli da segretario. Dal principio alla fine, proprio come Zeder, L’arcano incantatore è un concentrato di angoscia che finisce ben presto per diventare paura e approdare senza soluzione di continuità al terrore puro. Limitando al minimo effetti speciali e messe in scena sanguinolente, Pupi Avati costruisce con paziente lucidità una ragnatela gonfia di sequenze impressionanti: il macabro andirivieni del cadavere di Nerio (o così pare), seppellito e disseppellito da Giacomo, avvolto in un sudicio lenzuolo; gli esperimenti da negromante di monsignore, fra bicchieri che tintinnano e salassi provocati per fluire in quel remoto limbo di spossatezza fra la vita e la morte dove si è più ricettivi a entità di origine indefinibile; la coppia di converse che appare e scompare davanti agli occhi attoniti di Giacomo, per materializzarsi infine come tradizionali scheletri, nascosti insieme al piccone che pose fine alle loro vite.
Su tutto un senso di spaesamento e attesa indefinibile di qualcosa d’ignoto e potente, la stessa sensazione che ammanta di languido stupore il malcapitato giovane. E poi un libricino, La pseudomonarchia dei demoni, che, invece di finire bruciato, diventa la chiave per decodificare i criptici messaggi scambiati da monsignore con un corrispondente altrettanto dedito a pratiche diaboliche. Insomma, L’arcano incantatore è un erede evoluto e raffinato sia di Zeder che de La casa dalle finestre che ridono, un’ennesima dimostrazione della caratura assoluta di Pupi Avati nella realizzazione di trame gotiche e surreali.
Continua…