L’occhio di porco: incontro con Piero Calò

Piero Calò, classe 1969, nato a Taranto e trasferitosi negli anni 90 a Torino, è una persona ricca di risorse, uno di quelli che si direbbe “si è sempre dato molto da fare”. Ha collaborato e collabora con diverse riviste e webzine musicali e cinematografiche, ha curato un libro sul fenomeno del cinema porno post anni 70 (ediz. Lindau) e nel 2010 ha pubblicato con Instar libri il suo romanzo d’esordio, L’occhio di porco.

– Piero, in qualità  di redattori della webzine ondacinema, ci conosciamo da oltre due anni. La tua passione per il cinema è cosa nota. Ma tu hai qualcosa da dire anche in merito alla carta stampata. Cos’è per te la scrittura?
Il fissaggio, tipo quello del gel di quando avevamo 16 anni e i capelli, due cose, anni e capelli, in rapporto inversamente proporzionale tra loro. La carta stampata è potere oppure dignità, fino a 40 anni fa era entrambe le cose a causa dell’analfabetismo ma oggi o si è in un dominio (citazioni in giudizio, bollette, 740, passaporti) o nell’altro, nella degnazione di una scrittura sempre più blanda, immediata come un oroscopo. Cambierò idea quando solo quando sarà scritto, pubblicato, letto e commentato un nuovo Faust, forse la maggiore intersezione tra dignità e potere. Un regista che mi piace, Sokurov, ci ha fatto un film, uno dei (tanti, troppi) casi in cui la globalizzazione non funziona: lo spirito tedesco interpretato da uno spirito russo, perché ognuno ormai fa quel che gli pare, non quello di cui è capace.

– Parliamo del tuo romanzo. Descrivicelo brevemente.
È la storia di un piccolo paese del Sud Italia che ha sfruttato la sua posizione geografica “esclusiva” per instaurare un suo mondo autarchico e isolato. Il mondo, per Paisiello, semplicemente non esiste, si sa che c’è ma nessuno ha realmente voglia di averci a che fare. Tranne un paio di persone che hanno i talenti richiesti dalla società dello spettacolo, uno bravo a pallone e l’altra bella come una velina. Da qui cominciano i guai.

– Insomma Paisiello è un “sistema chiuso”, un piccolo mondo che si alimenta di se stesso, della sua gente, disancorato dal resto dell’Italia. Perché descrivere un posto così?
Perché non ho saputo elaborare niente di meglio. Perché non ho potuto elaborare niente di meglio. L’occhio di porco vive sotto il regno dell’angoscia, come in quegli incubi in cui cerchi di scappare, di fare qualcosa e sei lì, immobile, incapace di muovere un muscolo. Così è Paisiello e i suoi protagonisti.

– A Paisiello c’è  tutto il “necessario”, ma la vita del paesino ha bisogno della parola.
Se gli argomenti finiscono ci vuole qualcosa che alimenti l’interesse: la cronaca nera. La parola non è mai mancata a Paisiello: ci sono le regole di Adriano Masciarò, la parola di Dio di Don Paolo, gli idioletti di tutti gli altri che altro non fanno che parlare e parlare. La cronaca nera è un contenuto entro cui si dispiega tutta questa torre di Babele, un nuovo campo in cui tutti si cimentano come al bar dello sport.

– Il tuo libro sembra affrontare, nel suo microcosmo, tanti argomenti della nostra vita di tutti i giorni. In questo senso si colloca su un piano difficile da etichettare. Se dovessimo definirne il genere, quello de “L’occhio di porco” quale sarebbe?

Direi quel sottogenere di “ingegneria sociale” di cui J.G.Ballard buonanima è stato il massimo esponente con una parte della sua produzione letteraria, “Il condominio” e “L’isola di cemento” su tutti. Non un vero genere, in effetti, ma la somma di esperimenti sociali, scrittura automatica, un pizzico di fantapolitica (tipo “La svastica sul sole” di P.K.Dick) e le ucronie di tanti bravi autori tipo Morselli di “Contropassato prossimo”. Il tutto amalgamato da un reale amore per la sintassi, la costruzione del senso e per il lessico, le parole usate.

– Con tutti i personaggi che si incontrano tra le pagine del tuo libro, viene spontaneo chiedersi chi sia il vero protagonista della vicenda (anche se il giovane Luca compare apparentemente più degli altri).
Il protagonista è Paisiello perché, nel suo essere insieme mobile e immobile, è l’unico che può permettersi una coerenza che costringe gli altri, umani, mobili, all’adattamento prima e alla guerriglia poi. Luca è importante per il ritmo, è zoppo, ha sofferto, è di indole accidiosa ma potenzialmente è un atleta. Il futuro di Paisiello, comunque sarà, è nelle sue mani.

– Se puoi svelarcelo, cos’è  l’occhio di porco?
È il buco del culo.

Lungo le 230 pagine de L’occhio di porco, la scrittura di Piero Calò colpisce inevitabilmente il lettore, mentre si aggira con garbo tra gesti e pensieri di persone comuni, alcune stereotipate, altre così goffe da suscitare tenerezza. Con questo libro Calò ricrea un mondo che esiste, al sud come al nord, nelle lontane periferie delle grandi città, nei paesini di campagna. Un microcosmo, quello narrato, che a tratti è semplice, nelle cose di tutti i giorni, nelle relazioni sociali, nei coinvolgimenti emotivi e a tratti è complesso, perfino imperscrutabile, tra segreti, parole a metà ed equilibri instabili tra le persone.
Paisiello non è quindi solo un enclave che vive dei propri mezzi. È anche, forse, lo specchio di un’Italia chiusa in se stessa e spaventata da ciò che c’è oltre i confini di casa propria.
Piero Calò ha da poco concluso un nuovo romanzo, in attesa di editore. Una sorta di prosecuzione della vicenda di Paisiello. Ci ha anticipato che racconta il nostro mondo, quello occidentale, semplificato e riorganizzato dopo una crisi profondissima. Un mondo che è sopravvissuto e non presenta inquinamento né macchine, ma neanche sviluppo o ricerca. Un mondo in coma, un’altra faccia di Paisiello, come a chiudere un dittico d’angoscia. Attendiamo l’uscita.

massimo versolatto

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