Quando un thriller è ambientato nelle Highlands scozzesi, una vasta zona montuosa a nord-ovest della Scozia, bisogna aspettarsi qualcosa di particolarmente aspro e isolato. E infatti l’esordio di Martin Griffin nel mondo del poliziesco, attraverso questa pubblicazione nella collana M di Giunti, non si smentisce. L’impostore è una storia che tiene in tensione il lettore, poiché basata su equivoci, scambi di identità, inganni e manipolazioni, dove niente è mai ciò che sembra. Siete avvisati.
Remie Yorke è di turno al Mackinnon Hotel, mentre fuori imperversa una violenta bufera di neve. Per lei dovrebbe essere l’ultima notte trascorsa nella struttura, prima della chiusura di febbraio. Remie ha anche organizzato un viaggio a Santiago del Cile e non vuole che qualcuno crei problemi, dovendo partire l’indomani.
Poiché gli ospiti presenti sono soltanto due, la permanenza si preannuncia come una passeggiata di salute.
E invece i grattacapi arrivano, eccome. Poco dopo l’inizio del turno, un uomo bussa alla porta dell’albergo e chiede di entrare. Si identifica come Agente 4256 Don Gaines, se non fosse che l’albergo è ufficialmente chiuso. Ma quel cristiano è un poliziotto e Remie si mette a sua disposizione. Lui le racconta di avere avuto un incidente sulla strada innevata, durante il trasferimento di un pericoloso prigioniero dal vicino carcere di Porterfell. Poiché l’evaso è ancora in zona, Gaines si preoccupa di mettere in sicurezza l’albergo.
Poco prima, Remie aveva infatti captato alcuni movimenti strani davanti a quel carcere, distinguibile anche dalle finestre del Mackinnon Hotel.
La serata prende una brutta piega, ma ecco che arriva un secondo sconosciuto a dare il colpo di grazia. Perché costui dichiara di essere lo stesso poliziotto di poco prima, cosicché Remie non sa più a chi credere. Qual è il detective e chi il feroce assassino? “Raccontare per primo la tua storia non la rende per questo più vera.”
Complici la neve e l’isolamento totale, in una zona malagevole dove anche fare due passi all’esterno diventa difficoltoso, l’opera di Griffin si basa sul sospetto e sulla sgradevole sensazione di essere costantemente in pericolo. Di stare al cospetto di persone che d’improvviso potrebbero cambiare atteggiamento e aggredire la sventurata Remie Yorke. Nei corridoi bui dell’albergo, oppure sulla terrazza dell’ultimo piano, dove lei ha la stanza, l’assassino potrebbe tendere l’agguato fatidico che cambierebbe un clima apparente di placido assetto.
Remie è sicuramente un osso duro, che ha le sue motivazioni per non arrendersi. L’autore la descrive attraverso le tante peripezie che riesce a superare, in un romanzo dove l’azione la fa da padrone. Comprese le pericolosissime slavine che non risparmiano gli attori, neanche non fossero già abbastanza in pericolo!
Martin Griffin utilizza una descrizione di tipo cinematografico. Per creare suspense, si serve dell’espediente di non fare agire i suoi soggetti insieme. Per cui, ci si fa sempre la domanda: “Ma il tale, dov’è finito?”. Cosicché non manca la sorpresa.
Nel finale, qualcosa di inverosimile c’è. Remie e Wonder Woman potrebbero essere tranquillamente due gemelle, separate alla nascita. Quando si privilegia l’adrenalina, però, alla credibilità bisogna pur rinunciare.