Una strana biblioteca dove sono i lettori a portare i loro libri, l’incipiente siccità di un lago prosciugato e inscrivibili emozioni fabbricate dall’insonnia di obnubilate notti. Una modernissima inquietudine affiora dalle pagine di un libro pubblicato per la prima volta quarant’anni fa, e lo rende straordinario. Onirico e profetico, naif e per certi aspetti indecifrabile, le Venti giornate di Torino è uno scritto visionario che non parla alla città in cui è ambientato.
Torto si farebbe a Giorgio de Maria, che dopo queste pagine non scrisse altro, se si perimetrasse il suo racconto alla tradizione magica di una città natale che pur traspare in ogni riga, ma non è la protagonista della storia. Perché di protagonisti non ce n’è, a meno che siano le grida e i fantasmi, in una trama sulla trama che riassemblea dieci anni più tardi la cronaca inverosimile di venti giornate – e venti notti – fatte di siccità, insonnia, statue che prendono vita e orripilanti omicidi. Non ce n’è così come ‘non ci sono più né scale né ascensore’ nell’immaginario palazzo dove abita un misterioso mittente di cortesi lettere inviate da “mesi, forse anni, non so” all’indirizzo di “qualche persona trovata per caso in qualche vecchio elenco del telefono”.
Le Venti giornate di Torino non fece notizia alla pubblicazione nel 1977, e questo a dire il vero non stupisce. Se ne riparla adesso perché, come in un atteso risveglio, la strana biblioteca pubblica all’interno della ‘Piccola Casa della Divina Provvidenza’– dove l’oggetto delle letture sono i pensieri intimi e privati consegnati brevi manu dagli stessi cittadini-autori – acquista il significato che l’autore aveva profetizzato nel suo profetico e angosciato viaggio interiore.
Chiuso da una postfazione di Giovanni Arduino che, in rigido ordine alfabetico, decifra i simboli della Torino magica disseminati nel libro come misteriosi indizi, la lettura sfamerà i seguaci di Lovecraft e Hope, così come i fan di Dylan Dog. Notti insonni per gli altri.