Il celebre titolo italiano di Ellery Queen (ndr, Frederick Dannay e Manfred Bennington Lee), Uno studio in nero, si adatta alla perfezione ai tre romanzi che finora hai pubblicato, tre ritratti in altorilievo, approfonditi e convincenti, di tormentate figure femminili. La protagonista di Biancaneve (Todaro Editore, 2010) non ha nome, ed è giusto così perché lei per prima non si riconosce il diritto a una dimensione autonoma, solo di vivere all’ombra di qualcuno. Stella Romano in La donna della pioggia (Piemme, 2017) è moglie e madre che vive una vita in apparenza normale, divisa tra lavoro e famiglia, quando all’improvviso inizia a “perdere il tempo”, vittima di vuoti mentali che sembrano inghiottirla e di attacchi di panico che sovvertono l’universo da lei fino ad allora conosciuto. Giulia Ferro in Cuore di rabbia (SEM, maggio 2021) è invece una donna realizzata professionalemente, un vicequestore, alle prese con due omicidi che però la costringeranno a tornare al suo passato, a ricordi che lei non vorrebbe disseppellire.
Nei tuoi romanzi lo scandaglio psicologico prende quasi il sopravvento sul plot narrativo, che pure si mantiene sempre teso e coinvolgente. Nella tua dimensione di scrittura nasce prima la storia o i tipi psicologici che vuoi raccontare ?
Direi che lo scavo psicologico è la cifra profonda di tutto quello che scrivo, ciò che mi interessa di più. Il meccanismo del giallo viene sicuramente dopo. Però vorrei dire che la storia in realtà si dipana di pari passo con lo sviluppo dei personaggi, perché un personaggio non è mai frutto di una pura e semplice definizione di un certo “tipo” dotato di determinate caratteristiche, non risulta mai dall’applicazione meccanica di una serie più o meno ampia di qualità e difetti. Un personaggio è prima di tutto una rete di relazioni con gli altri, con il resto del mondo, nel presente e inevitabilmente nel passato. È un intreccio di azioni e reazioni, un insieme di desideri, di ricordi, di passioni, che si svelano man mano con il procedere della storia.
Nella recente rassegna bolognese in cui ci siamo incontrate, Trebbo Sui Generis, alla tua sessione era stato attribuito il titolo Crimini dal passato. Mi sembra perfetto per identificare il fil rouge che lega i tuoi romanzi: traumi e crimini maturati in ambito famigliare, che hanno inciso cicatrici indelebili sulle tue protagoniste.
“Famiglie, vi odio!” diceva André Gide, e spesso sono proprio le famiglie a uccidere. Magari non a livello fisico, ma morale sì, danneggiando in modo irreparabile il normale percorso di crescita di chi invece andrebbe protetto…
È verissimo: le famiglie, anche quelle migliori, incidono segni indelebili nella carne viva di ognuno di noi. Figuriamoci le peggiori! Il punto è che non esistono famiglie perfette perché non esistono individui perfetti, e nel gioco delle relazioni anche certe scelte fatte nel tentativo di proteggere i più piccoli possono avere delle conseguenze negative, per non dire drammatiche. Mi riferisco in particolare a un meccanismo ben noto e spesso messo in atto anche nelle famiglie più amorevoli, e con le migliori intenzioni: quando si racconta una bugia a un bambino per proteggerlo da una verità (un lutto, una disgrazia, un abbandono) che secondo noi adulti non è in grado di affrontare. Ma le bugie, anche quelle a fin di bene, scavano solchi, rendono il terreno su cui ognuno di noi è chiamato a costruire la propria vita fragile e friabile, pieno di vuoti, di buchi neri dove prima o poi si rischia di cadere. Ogni famiglia ha i suoi segreti, piccoli o grandi che siano, e a me questo sembra un tema particolarmente interessante e fecondo, su cui riflettere e da cui ricavare storie.
Addentriamoci ora in Cuore di Rabbia. Giulia Ferro rientra a Milano, una città che in passato aveva abbandonato perché sentiva di non poterci più stare. Ora però si è aperto per lei un incarico importante come vicequestore, un’occasione irrinunciabile. La prima indagine riguarda un omicidio eccellente, la ricca suocera di un assessore faccendiere, caduta vittima di un assassino spietato. Qualcosa però delle circostanze in cui è avvenuto il delitto le riporta alla mente un altro omicidio, di venticinque anni prima, quando una compagna di studi fu ritrovata cadavere, carbonizzata, in una villa sul Lago Maggiore. E…
A te l’onere di raccontare qualcosa in più, senza rivelare troppo.
Giulia Ferro conduce per gran parte del romanzo una doppia indagine, ma soltanto una delle due è autorizzata e ufficiale: quella relativa alla morte della signora Musumeci, una ricca vedova appartenente a una famiglia molto in vista, che è scomparsa nel nulla e dopo pochi giorni è stata ritrovata carbonizzata e senza la testa. Un delitto efferato ed eccellente, rispetto al quale Giulia Ferro subisce molte pressioni, politiche e non: tutti pretendono che questa indagine porti a immediati risultati. E invece Giulia è distratta, svogliata, non ha voglia di occuparsene, perché la sua mente è rivolta altrove, verso un cold case che risale a venticinque anni prima: la morte inspiegabile e atroce di una sua amica, una ragazza di appena vent’anni. Un delitto rimasto senza colpevole per troppo tempo e diventato a un certo punto per Giulia una vera e propria ossessione. Anche perché per dipanare i fili di questo vecchio caso sarà necessario andare a ritroso nel tempo ma anche muoversi nello spazio: Giulia dovrà tornare sulle sponde del lago Maggiore, dove è nata e cresciuta, e da dove è scappata non appena ha potuto, in fuga da una vicenda famigliare drammatica che ha lasciato in lei tracce profonde e ferite impossibili da cancellare.
Te lo accennavo nei giorni scorsi, il tuo romanzo affronta con grande profondità le emozioni, umanissime, che spesso ci impediscono di superare traumi e ostacoli della nostra vita: la paura, positiva finché serve a proteggerci dai pericoli, che però diviene ostacolo quando ci inchioda ai nostri limiti, e la rabbia che ci brucia dentro per un torto o un’offesa subiti e ci tiene in ostaggio, impedendoci di andare oltre.
Quanto contano nell’attualità di Giulia Ferro?
Giulia Ferro è stata dominata per gran parte della sua vita dalla rabbia. Per tanti anni la collera è stata la sua principale reazione ai torti subiti, ai traumi che hanno contrassegnato la sua infanzia. È stato il suo modo di proteggersi: una corazza per tenere a distanza gli altri e non permettere a nessuno di infliggerle ulteriori ferite. E la rabbia può essere un ottimo carburante che ci spinge avanti, ci rende forti e combattivi – anche grazie alla sua rabbia Giulia Ferro ha fatto carriera in un mondo ancora in gran parte condizionato da una visione maschilista. Però forse anche per lei è arrivato il momento di rielaborare questa rabbia, trasformarla in qualcosa d’altro. Le ferite possono cominciare a guarire solo quando impariamo che possiamo essere forti anche a partire dalla consapevolezza della nostra fragilità.
Milano è protagonista nel tuo romanzo. Milano, ”l’unica città al mondo dove Gulia non voleva tornare“, che ora invece percorre in un vagare senza sosta, forse per scoprire qualcosa che la induca ad amare quello che per tanto tempo ha odiato, magari una nuova Milano, “colorata, piena di turisti, punteggiata di grattacieli nuovi di zecca, addirittura sorridente”.
Forse è stato così anche per te, novarese di nascita: una Milano del prima e una del dopo?
Certamente sì, ci ho messo molto di autobiografico nel rapporto tra Giulia e Milano. Anch’io per tanti anni ho vissuto a Milano senza grande entusiasmo: era la città giusta per lavorare, per avere un certo tipo di opportunità, ma non era una città da amare. Anche perché quando io ci sono arrivata, alla fine degli anni Ottanta, la cosiddetta Milano da bere non era in effetti una città così facile, accogliente. Era una città piuttosto dura, respingente. Poi Milano è cambiata, anche in modo radicale, e a un ritmo sempre più rapido. E anch’io, proprio come Giulia Ferro, a poco a poco mi sono innamorata di questa città, che in realtà è molto sfaccettata, multipla, fatta di tante città diverse, e proprio per questo affascinante.
In apertura ci siamo soffermate sullo spazio psicologico che hai dedicato alle tue protagoniste. Non è difficile comprendere quanta importanza riveste per te la figura femminile e la sua conquista di un giusto ruolo nella società. Parliamo però anche dei personaggi maschili del romanzo, in particolare di due che possiamo considerare agli antipodi: l’assessore Soneri, intrallazzatore senza scrupoli, e l’ispettore capo Alfio Russo, che spesso indovina i pensieri di Giulia e sempre cerca di tenere a bada la sua rabbia.
Che contraltari maschili rappresentano?
Nell’assessore Soneri ho indubbiamente concentrato molte delle caratteristiche peggiori degli uomini politici italiani: l’arroganza, l’assenza di scupoli, l’avidità, l’atteggiamento predatorio nei riguardi di chiunque si mostri abbastanza debole da poter essere impunemente schiacciato. In Alfio Russo, amico e braccio destro di Giulia, ho invece cercato di rappresentare un cliché spesso frequentato nei romanzi gialli: quello del bel poliziotto che a ogni indagine, pur impegnativa, riesce a trovare il tempo per fare strage di cuori. Ecco, Alfio è un po’ così: è bello, single, molto interessato alle donne e ampiamente ricambiato, ma è anche un uomo intelligente, sensibile. Soprattutto, possiede una caratteristica fondamentale per riuscire ad andare d’accordo con Giulia Ferro: riesce a farla ridere. Giulia inizialmente lo guarda con sospetto e una punta di pregiudizio: gli uomini belli non le sono mai piaciuti, dice. Però poi tra i due si crea un buon rapporto, una vera e propria alleanza fondata sul rispetto reciproco.
Fin dalle prime pagine, leggendo degli studi giovanili di Giulia sulla fenomenologia di Husserl e sull’esistenzialismo di Sartre, e più avanti, accompagnandola in quelle sue passeggiate per Milano dense di elucubrazioni, vien fatto di pensare che li abbia ereditati da te.
Quanto ancora le hai trasmesso di tuo?
A Giulia Ferro ho prestato la mia laurea in filosofia, certo. Potrei dire che le ho prestato un po’ del mio sguardo sul mondo, qualcuna delle mie letture, l’abitudine di camminare per Milano. Lei, come me, percorre a piedi chilomeri e chilometri, e intanto pensa, riflette, ricorda, conduce le sue indagini.
Veniamo ora alla tua “voce” di scrittrice, che giunge al lettore nitida e potente. Inutile porre l’accento sulla padronanza lessicale e sulla forte identità: non potrebbe essere altrimenti per un autore che è anche docente di scrittura e che ha fatto della sua passione per gli studi di filosofia e psicologia un punto di forza della sua opera. Vorrei invece soffermarmi su altre scelte stilistiche che a mio avviso esprimono un preciso orientamento: la narrazione in prima persona e la brevità “cinematografica” dei capitoli, ognuno coincidente con una precisa scena. Dario Argento ha introdotto la “soggettiva dell’assassino”, tu quella della tua protagonista.
Perché hai scelto la narrazione attraverso lo sguardo e il sentire di Giulia e quanto cinema c’è nella tua scrittura?
Questo è il terzo romanzo che scrivo e per la terza volta ho sentito il bisogno di usare la prima persona singolare. C’è chi non la ama molto perché la ritiene difficile da maneggiare, o comunque limitante. Se usi la prima persona, quello che puoi raccontare al lettore è esattamente quello che sa il tuo protagonista/narratore, né più né meno, dall’inizio alla fine. Può essere complicato in alcuni passaggi. Però è una sfida che mi piace. Utilizzare la prima persona ti consente di calarti dentro un personaggio, nella sua testa, di usare i suoi occhi come fossero lo sguardo di una cinepresa. Ovviamente è uno sguardo soggettivo, che non ha pretese di assoluto e proprio per questo mi piace. Quanto ai capitoli: sì, esattamente come hai notato, sono tutti piuttosto brevi, a volte brevissimi e seguono un ritmo da montaggio cinematografico. Ogni capitolo è una sequenza, caratterizzata da un’unità di tempo e luogo. Una scelta che deriva dalla mia lunga frequentazione delle sale cinematografiche, per passione e per lavoro, e dal fatto che io riesco a scrivere una scena solo dopo averla in qualche modo “vista”. Possiedo una memoria prevalentemente visiva, e anche la mia immaginazione funziona nello stesso modo: ho bisogno di vedere i personaggi che si muovono, che parlano, ho bisogno di vedere la scena come se fosse proiettata su uno schermo. Insomma, una vera e propria deformazione professionale!
Desidero rivolgere un particolare ringraziamento a Marina Visentin, non solo per la generosa disponibilità con cui si è concessa a questa lunga intervista, ma anche per l’attraente complessità delle sue protagoniste che mi auguro di incontrare presto.
MARINA VISENTIN è nata a Novara, ma da trent’anni vive e lavora a Milano. Giornalista, traduttrice, consulente editoriale, una laurea in filosofia e un lontano passato da copywriter in un’agenzia di pubblicità.
Ha collaborato con varie testate nazionali, scrivendo di cinema e altro; attualmente, si interessa di scrittura autobiografica, organizzando laboratori a Milano e dintorni. Ha pubblicato testi di critica cinematografica, saggi sulla storia del cinema (Asian Terror. Il cinema horror dell’estremo oriente, De Agostini, 2004; The Science Fiction Universe. Enciclopedia del cinema di fantascienza, De Agostini, 2007), libri di filosofia e psicologia. Dopo la fiaba noir Biancaneve (Todaro Editore, 2010), con Piemme ha pubblicato La donna nella pioggia (2017) e con SEM il recentissimo Cuore di rabbia (maggio 2021), entrambi thriller psicologici.