MilanoNera ha incontrato Luca Ciarabelli, nato a Città di Castello, Ravennate d’adozione, durante la presentazione, a Punta Marina Terme (RA), del suo romanzo Il bambino che fumava le prugne, edito da Il Maestrale.
Il tenente Bonarroti è chiamato ad indagare sull’incidente avvenuto nella Chiesa di Sant’Apollinare, a Ravenna, ai danni dell’archeologo Baldini, precipitato da un’impalcatura mentre era intento a picconare un mosaico. Si scopre subito che l’incidente in realtà è un omicidio, perpetrato con un raro veleno estratto dalle prugne.
Non è l’indagine a farla da padrona in questo romanzo, bensì una Ravenna surreale, sospesa nello spazio e nel tempo, metafisica, circondata da paludi, immersa nella calura estiva che la rende quasi una città fantasma e talmente spossata che nulla accade, popolata da stregoni, comari e compadri, che parlano una lingua tutta loro. Una città stanca. Una città orgogliosa dei suoi precedenti storici, abilmente raccontati dall’autore, appassionato di filosofia, che ci regala bei dialoghi e pensieri profondi, oltre a nozioni storiche mai pesanti.
Nonostante tutte queste sfumature, il mistero si infittisce ed il giallo prosegue fino all’ultima pagina.
A novembre il secondo romanzo di questo promettente e simpatico autore.
Il romanzo parte come un giallo, per poi dare spazio alla vera protagonista, la filosofia. Il vero giallo è la ricerca dell’uomo, di sé stessi?
Sì. Nel mercato attuale è necessario dare delle etichette. Il romanzo è venduto come giallo, si parte da una situazione tipica del genere, l’omicidio, l’investigatore che deve risolverlo, ma poi c’è molto spazio per l’introspezione e la storicità.
Come ti è venuta l’idea del romanzo, ambientato a Ravenna?
Lavoravo qui a Ravenna in una multisala cinematografica, una di quelle amenità americane, e con un mio compagno di lavoro, che ho ringraziato alla fine del libro, in quei pomeriggi in cui non c’era nulla da fare, è nato l’embrione della storia. Più ampiamente, ho sempre avuto in animo di scrivere di Ravenna e questo libro è un omaggio a Ravenna, alla sua storia millenaria, alle bellezze che ci sono a cui purtroppo nessuno sembra più farci caso, va più la riviera che il centro storico. C’era la voglia di parlare di questo luogo, di entrare nelle sue viscere e di riviverne la storia.
Da qui la volontà di non descrivere la Ravenna contemporanea, ma una città sospesa nel tempo?
Certe descrizioni hanno molto a che fare con il verismo magico della letteratura sudamericana, che prendo a modello. L’idea, la sfida, era di cimentarsi in un genere molto forte come quello del giallo per colorarlo con scene, ambientazioni, pennellate, se vuoi, che appartengono ad un mondo diverso. Gli scrittori sudamericani vengono spesso tacciati di essere dei visionari, Màrquez replica che non sono dei visionari, ma dei cronisti; la loro realtà è talmente magica che basta guardarla e raccontarla. Io invece non vedo del magico, devo inventarlo. Ho lavorato di fantasia. L’idea era quella di costruire una Ravenna che credo che ben pochi abitanti possano riconoscere e che a me piacerebbe fosse vera. E’ un mondo possibile.
La filosofia è la tua passione?
La filosofia mi ha sempre interessato, ma non mi do credenziali da filosofo. Comunque è un amore che coltivo da sempre.
Quanto c’è di autobiografico nel tenente?
C’è tanto. Il tenente come me è uno straniero in terra straniera, deve farsi tradurre le parole in dialetto, altrimenti non capisce quello che gli altri dicono, c’è l’insonnia di cui io soffro, c’è la sua solitudine, in fondo, i suoi amori particolari. E c’è il fatto che sente il tempo trascorrere senza un apparente senso, per questo il tenente frequenta corsi di filosofia, per ricercare quel senso, la realtà di tutti i giorni non gli basta.