In libreria con Brava Gente, HasperCollins Italia, Margherita Oggero ha accettato di rispondere a quaòche nostra domanda.
Buongiorno Margherita, è sempre bello avere un’occasione per parlare con te ma come prima cosa levami una curiosità: una cover rosso fuoco per Brava gente con di lato mollemente adagiata una ragazza dai capelli rossi che indossa i jeans.
Un qualche significato particolare ?
La ragazza della copertina per me è Deborah detta Debby. La casa editrice mi aveva proposto 4 copertine, sempre di Falcinelli, tra cui scegliere. Ho scelto questa, che era anche la preferita del direttore della narrativa. Debby che pensa a quello che ha letto, che riflette, che cambia.
Con il tuo immediato contatto empatico nei confronti della gente hai ambientato il tuo libro tra l’eterogenea popolazione che convive in Barriera, luogo principe della periferia di Torino. Una scelta voluta immagino, perché?
Ho scelto Barriera per più motivi; uno di ordine sentimentale. In Barriera ci sono vissuta subito dopo la guerra, al ritorno dallo sfollamento. La casa dei miei, nonché mia, era stata bombardata e resa inabitabile, e papà e mamma avevano trovato da affittare soltanto una specie di magazzino in cui riportare i mobili, sfornito delle più elementari comodità e per questo mi avevano sistemata dai nonni materni, per rendermi la vita più comoda. Ci sono vissuta sino ai 13 anni e per me è stato un periodo felice. Certo, allora Barriera era diversa, era un insieme di rioni che assomigliavano a paesi, dove ci si conosceva, e i bambini (tra cui io) giocavano ancora per strada, spesso in bande.
Inoltre in Barriera ho frequentato la scuola elementare e ho poi anche insegnato alle superiori per molti anni, pur abitando altrove.
Ma ci sono anche altri motivi: Barriera è la periferia torinese che ha conosciuto più immigrazioni: nella seconda metà dell’ 800 dall’area del Vercellese (contadini senza più lavoro a causa della crisi del riso); veneti in fuga dalla pellagra e dalla miseria estrema nei tardi anni ’20 e poi ancora dal ’53 dopo l’inondazione del Polesine; i meridionali chiamati sbrigativamente Napoli dagli anni ’50 in poi; infine la grande immigrazione extracomunitaria a partire dalla metà degli anni ’80. Una periferia cha ha conosciuto problemi di convivenza mai del tutto superati, una periferia, per citare Renzo Piano, mai rammendata.
Quanto è cambiato il mondo a Torino e altrove dai tuoi primi romanzi ?
Negli ultimi 30 anni ci sono stati cambiamenti di grande rilievo in tutto il mondo o quasi. La rivoluzione digitale ritengo che per ampiezza e profondità possa essere paragonata alla rivoluzione industriale ottocentesca. Torino e molte altre città hanno perso le fabbriche, hanno visto aumentare o diminuire drasticamente la popolazione, patiscono un inquinamento crescente (Torino è la città più inquinata d’Italia), sperimentano modalità diverse rispetto al passato per l’acquisto di merci, per l’organizzazione del lavoro e dello studio. Ma non sono una sociologa, io racconto semplicemente delle storie, ambientandole in un luogo che conosco.
Una consueta e troppo spesso triste realtà spinge Debby a sognare sugli articoli di una rivista e Linda sua madre a immergersi nelle avventure di Angelica alla corte del re Sole… insomma a leggere. Pensi che la lettura, una qualsivoglia lettura possa aiutare? Riuscire a cambiare qualcosa?
Io credo che la lettura, anche quella di testi che non rientrano nel cosiddetto canone, possa smuovere il pensiero, introdurre un tarlo. L’immagine è più immediata, ma è evanescente, sbiadisce abbastanza in fretta. La parola no, compie un lavoro sotterraneo dagli esiti non del tutto prevedibili.
A conti fatti però in Barriera tutti, compresa la vecchia signora, personaggio che si fa molto amare, trascurata dall’unico figlio anaffettitivo, sembrano proiettati verso una diversa e migliore realtà. Ma anche se pensano di ottenerla in ogni modo, di arrangiarsi insomma, nel tuo narrare trovi loro una giustificazione. Perché?
Non credo che, a parte forse i serial killer, esistano individui totalmente, assolutamente malvagi. Hitler amava, per esempio, almeno i cani e presumo che anche le altre anime nere, sterminatrici all’ingrosso, del secolo scorso e di questo (cito alla rinfusa: Stalin Pol Pot Videla Bokassa Milosevic ecc) albergassero in sé qualche spiraglio di luce. Non mi piace raccontare i “mostri”, preferisco scrivere di persone che hanno egoismi e generosità, che si barcamenano come sanno e possono tra le tante insidie della vita, tra le difficoltà che hanno incontrato sul loro cammino, riuscendo o no a superarle, spesso al confine tra legalità e illegalità
Chi regge meglio nel tuo romanzo il confronto con la spesso difficile quotidianità della vita.
Le donne o gli uomini?
Forse le donne reggono meglio la difficoltà: Nei secoli hanno quasi sempre avuto ruoli marginali o subalterni, ma sono dotate di un sano empirismo. Comunque non credo che “geneticamente” siano migliori degli uomini, non riesco a credere nelle generalizzazioni.
Cosa ti ha spinto a scrivere o meglio a far confessare a tante persone le loro diverse e variegate esperienze di vita?
Non ho incoraggiato confessioni, talvolta ho chiesto di raccontarmi storie che i miei interlocutori avevano a loro volta ascoltato o conosciuto. Ci ho ricamato sopra o le ho trasformate.
Tanti giovanissimi inquieti, insofferenti, relegati in fatiscenti giardinetti o negli illusori spazi dei supermercati. Scontri tra bande, gregari dello spaccio, vendette trasversali, tutto talvolta in Barriera sembra volersi trasformare in spettacolo, in un diversivo, uno svago per “brava gente” che magari ha ben altro da pensare. Insomma in una quotidiana puntata di reality. È così? Brevi pennellate ma sufficienti a creare gli straordinari personaggi, che convivono giorno dopo giorno senza problemi, un denso conglomerato di microrealtà, in un quartiere eterogeneo affollato e multiculturale… Qual’ è , secondo te, la peggiore incognita legata ai giovani oggi?
I giovani oggi sembrano (non tutti) più fragili rispetto al passato, perché i pilastri educativi di un tempo non sono più così presenti nella loro crescita: la famiglia è spesso distratta e insicura, la scuola ha in parte fallito i propri intenti educativi, i centri di aggregazione tradizionali (oratori palestre associazioni sportive scout…) hanno perso fascino: i ragazzi tentano di “educarsi” da soli attraverso i media, ma le indicazioni che ricevono sono contraddittorie.
Per fare una battuta abbastanza ovvia, mi sembra che oggi la realtà sia vissuta attraverso i reality, in maniera indiretta. Forse solo la musica è ancora trascinante e riesce a generare emozioni non mediate.
Una narrazione asciutta, essenziale in cui prendono spazio sprazzi di dialetto e di diverse lingue che movimentano la scena di un set in cui convivono leggi e regole non scritte. Quanto ti è piaciuto creare questo vivace palcoscenico che si presterebbe molto bene a una sceneggiatura televisiva?
Avevo in mente un romanzo corale, in cui le varie storie ruotassero intorno a un nucleo centrale, Debby Linda Oreste. Un romanzo che idealmente rimanda -senza ovviamente poter entrare in competizione- a un pilastro della nostra storia letteraria, che qualcuno ultimamente considera più o meno spazzatura.
Incursioni nel dialetto, linguaggio piuttosto ruvido e mimetico. Per orientarsi tra i vari personaggi, la locandina, o bibbietta iniziale, come nei film. Scrivere continua a piacermi.
MilanoNera ringrazia Margherita Oggero per la disponibilità