Il confine è il novo thriller di Giorgio Glaviano, da poco uscito per Marsilio. Milanonera ha avuto l’opportunità di rivolgere qualche domanda all’autore.
Quello che immediatamente colpisce chi legge il tuo romanzo è il personaggio di Fabio Meda. L’insanabile disperazione di questa figura mi ha fatto ricordare certi personaggi di Grangé, come il Volokine di Miserere, ma il protagonista da te creato è assolutamente originale. Hai avuto qualche fonte di ispirazione letteraria per costruirlo?
Sì, tante. Tutte le storie che raccontano di protagonisti soli di fronte alla vita o alle loro “missioni” sono progenitrici di Fabio Meda. Ma ce n’è una in particolare che ha “acceso” il mio personaggio: il racconto “To build a fire” di Jack London. Un uomo senza nome deve attraversare le immense e gelate foreste dello Yukon e man mano che avanza il freddo aumenta, finché la notte deve assolutamente accendere un fuoco per sopravvivere. Non ci riesce e alla fine muore. È una specie di tragica parabola dai molteplici significati che mi ha dato l’ispirazione per Meda: un uomo solo, una foresta immensa e inspiegabile, il tentativo disperato di sopravvivere.
Tu sei anche uno sceneggiatore: mi ha colpito il modo in cui hai “raccontato” la Maremma: luoghi che percepiamo come fonte di bellezza e serenità si sono trasformati in un paesaggio allucinato e desolato, che rispecchia le angosce del protagonista. Leggendo il libro avevo dinnanzi il bosco, quasi una selva dantesca, e la solitudine dei paesi in cui si dipana la vicenda. Come mai questa scelta così inconsueta?
La Maremma è davvero stupenda e ci torno ogni volta che posso. Anche per me è fonte di calma e bellezza, ma nel romanzo la vediamo attraverso lo sguardo di Fabio Meda e la sua visione è distorta da ciò che lui si porta dentro. Meda è dominato dalla sua ossessione, è schiacciato da un istinto naturale, quello sessuale che nel suo caso è diventato malattia e dipendenza. Quindi il bosco, immagine della natura benigna, diventa per Meda un luogo oscuro e minaccioso: l’incarnazione stessa del confine che ha superato e che lo dilania al suo interno.
La discesa agli Inferi di Fabio Meda è un percorso inevitabile per giungere alla catarsi finale. Ho avuto la sensazione che anche nei momenti più dissoluti e disperati questo personaggio mantenga la dignità del suo ruolo: un carabiniere, non però un uomo che tende alla legge ma alla giustizia. Potresti spiegarci come mai hai scelto un protagonista come lui e se gli sei affezionato.
Meda è un uomo che ha perso tutto. La sua intera vita è dominata da un destino ingiusto. Ma lui continua ad andare avanti. Non accetta quello che gli è capitato e però lo affronta. Non può fidarsi nemmeno di se stesso, data la sua dipendenza. Anzi, sa bene di essere pericoloso per sé e per gli altri. È un prigioniero della sua vita. Ma lui non si dà per vinto. E questo, io credo, solo perché, in qualche modo, lui ha conservato delle coordinate morali.
Esse non possono salvarlo o riscattarlo. Ma gli indicano la via. Sta a lui attraversare “il bosco” dentro se stesso e uscirne. Meda deve soffrire, deve perdersi per ritrovarsi. E lo deve fare da solo. Esattamente, fatte le dovute proporzioni, come succede ad ognuno di noi ogni giorno. Ho passato con Meda un intero anno e l’ho visto sottoporsi ad una disperata Via Crucis. Ma la sua è comunque una storia di speranza.
Il confine ha molteplici significati: potrebbe rappresentare a una prima lettura l’ovvio confine tra bene e male, ma in realtà raffigura molto altro. Cos’è per te il confine?
Ogni società stabilisce una serie di confini. E ognuno di noi poi ne declina altri suoi particolari. Tutte le regole, le leggi, i codici, le direttive sono pensate per “recintare” un mondo protetto: una società più “giusta”. Ogni confine ci contiene e contiene le nostre passioni o gli istinti. Sono i limiti che ci imponiamo e che fissiamo, il non plus ultra. Ma mentre includiamo cosa va bene e cosa no, allo stesso tempo escludiamo tutto il resto. Eppure, pur avendo scelto di vivere dentro il confine di ciò che abbiamo stabilito essere lecito, siamo attratti da quello che c’è oltre. Non ne possiamo fare a meno: ed esattamente come il Giovanni Drogo di Buzzati non riusciamo a smettere di scrutare l’orizzonte dei nostri confini. Meda, al contrario di Drogo, ha lasciato la fortezza ed è andato incontro ai suoi tartari. Lui ha attraversato il suo confine.
Nel libro ci sono molte tematiche scottanti: la percezione dello straniero e il potere dei mass media per esempio. Cosa ti ha spinto ad affrontarle, inserendole in un genere piuttosto codificato come il giallo?
Io credo che il giallo sia un genere che permette di raccontare molto bene le società umane. Spesso si fa riferimento ad Edgar Alla Poe e al suo Monsieur Dupin come al primo caso di giallo e prototipo per tutti i successivi investigatori. Ma potrebbe addirittura risalire all’anno mille in Cina durante la dinastia Song. In quel periodo erano celeberrime le avventure del giudice Bao Zheng, ispirate ad un magistrato realmente esistito, che risolveva crimini e delitti dimostrando incorruttibilità e lealtà all’imperatore. Le storie di Zheng rappresentavano una società cinese verticistica, ordinata e incardinata su determinati valori di giustizia e moralità. Il giallo parte da una frattura: l’ordine si è incrinato a causa di un delitto e va individuato il colpevole per riequilibrare le cose. Solo così la società, qualunque essa sia – democratica, capitalistica, tirannica, distopica, classica, rinascimentale, ottocentesca – potrà tornare a dormire sonni tranquilli. Ora, lasciando da parte tutti i generi, sottogeneri ed evoluzioni (dal thriller, al cyber, allo steampunk, etc.) il giallo è essenzialmente un racconto in cui l’ordine deve essere ripristinato. E se c’è un ordine pregresso, esso consiste in regole, scritte e non, codici, equilibri sociali, modi di vivere, etc. Ecco perché il giallo è un genere che ben rappresenta la società in cui è ambientato: senza la descrizione della società, il genere cessa di esistere, perché non sarebbe chiaro quale tipo di ordine debba essere ripristinato. Nell’equazione del genere giallo, omicidio-investigatore-colpevole, c’è quindi un quarto termine che è la società. Senza quest’ultimo elemento l’equazione è monca. Ecco perché “Il Confine” contiene anche tematiche come gli “stranieri” o il peso dei “mass media”: perché l’ordine che Meda deve ripristinare, quello della società in cui oggi viviamo, contiene anche questi aspetti.
Il sesso è il fil rouge che avvolge il protagonista e altri personaggi principali, penso alle parole di Isotta: “superato il confine l’uomo torna a essere quello che è. Puro desiderio carnale.” Mi ha colpito la sobrietà, o meglio la letterarietà, con cui tratti questo argomento. Perché hai scelto di renderlo così rilevante nella trama? Sta forse diventando un privilegiato codice di comunicazione in una società afona di sentimenti?
Il sesso è onnipresente nei rapporti umani: si può pensare alle società umane come a complessissimi rituali di corteggiamento codificati da leggi, istituzioni, regole. L’etologo Desmond Morris, ad esempio, ne ha analizzato la sua onnipresenza permeante. Anche il biologo Richard Dawkins ne ha trattato come del pilastro fondante delle società. Il sesso è istinto primordiale, piacere, comunicazione a livello più intimo tra due esseri umani, ma è anche una possibile declinazione dell’amore. Meda è afflitto da dipendenza sessuale, una malattia che gli impedisce di vivere il sesso come tutti gli altri. I personaggi che lui incontra hanno tutti un loro modo di vivere il sesso: chi in maniera spudorata, chi con un senso di colpa, chi in maniera predatoria, chi senza emozioni, chi subendolo, chi vendendolo. Quella di Meda è una distorsione che gli genera sofferenza e che lo ha precipitato in un inferno. Ma proprio perché la sua è una malattia, ho preferito raccontarne soltanto l’eziologia e l’anamnesi. Meda è costretto a nutrirsi di sesso per vivere, ma in fondo è disperatamente alla ricerca di amore.
Sono molto interessanti gli accenni presenti nel romanzo sulle condizioni di vita nei paesi dell’ex Urss. Cosa ti ha spinto a interessartene?
La nostra società è stata sottoposta a svariati rimescolamenti, prima tra nord e sud e poi col resto d’Europa e ora con l’Africa. È un dato di fatto, al di là di come la si pensi in proposito. Io credo che quelle di chi arriva in Italia siano tutte storie che vale la pena raccontare. Questo perché non ci sono storie sbagliate o giuste, ci sono solo storie belle o brutte. La protagonista femminile della storia, Nevena, è una bulgara che vive da anni in Italia. Lei porta in dote un passato per noi italiani “esotico” che la storia ha cancellato, ma che trovo molto interessante. Io nell’89 ero un adolescente e mi sono sempre chiesto come fosse essere adolescenti al di là della cortina di ferro. E che piega avessero preso le vite di ragazzi e ragazze come me quando il comunismo sovietico si dissolse. Mi sembrava interessante far incontrare Meda e Nevena: un uomo e una donna che si ritrovano in Italia provenendo da passati totalmente diversi, nel bel mezzo di un crimine che sta squassando le loro vite.
C’è qualcosa di epico nella via crucis di Meda, un’affermazione di valori in un contesto risoluto a negarli. Come ti è venuta in mente una storia come quella de Il confine?
Volevo capire quanto in basso un uomo può precipitare prima di cominciare a cambiare il suo orizzonte di valori. Se il destino ci si accanisce contro è giusto smettere di credere a dei principi? Siamo giustificati a superare i confini del lecito se la vita ci spinge in un precipizio? Quanto si deve aumentare la pressione prima che esploda la nostra moralità? E se la società che abbiamo intorno sembra avere essa stessa aver già ampiamente superato tutti i confini, saremmo assolti se, sfiniti, stanchi, demotivati, decidessimo di farlo anche noi? Così è nata la storia di Meda, un irreprensibile capitano dei carabinieri che è precipitato in maniera rovinosa: degradato, denigrato, allontanato, disprezzato. Un uomo completamente solo e malato di una malattia umiliante come la dipendenza sessuale. Un uomo che deve decidere se rimanere al di là del confine o riuscire, ad un prezzo altissimo, a tornare indietro.
Concludo con alcune domande tecniche, da appassionata del genere: quali sono a tuo parere gli elementi imprescindibili nella scrittura di un giallo e quali sono i tuoi autori di riferimento.
Credo che in un giallo non possano mancare dei personaggi con un retroterra interessante e che viene rivelato mano a mano che la storia procede e li “stritola”. Oggi, infatti, i gialli tendono sempre di più ad avere protagonisti molto profondi, che vengono dissezionati in ogni loro più recondito aspetto psicologico. E poi ciò che non può assolutamente mancare è che la macchina del giallo: il plot. Esso deve essere preciso, affilato e stringente. Allo stesso tempo, le false piste devono essere a mio parere emozionanti, credibili e inaspettate quanto la soluzione stessa. Inoltre, un altro elemento imprescindibile è il racconto della società in cui avviene il delitto: più preciso è questo racconto, più esso scava nelle contraddizioni e nei costumi e più il giallo ne guadagna. Per finire, gli antagonisti dovrebbero avere motivazioni e dinamiche profonde quanto quelle dei protagonisti. I miei autori di riferimento sono tanti, ma tra quelli che torno a leggere volentieri ci sono Borges, Scerbanenco, Sciascia e Simenon. Tutti loro hanno scritto anche gialli e ognuno di loro ha in qualche modo innovato il genere.
Quale domanda avresti desiderato che ti rivolgessi?
Nessun’altra domanda: quelle che mi hai posto sono state tutte molto interessanti e nel tentativo di rispondere sono tornato a riflettere su tanti aspetti del romanzo. Quindi sono io che ringrazio te.
Ti ringrazio per aver soddisfatto le mie curiosità di lettrice, in attesa di un nuovo…confine.
Qui la nostra recensione a Il confine
MilanoNera ringrazia Giorgio Glaviano per la disponibilità