INTERVISTA A CLAUDIO BANDI VINCITORE EX AEQUO PREMIO TEDESCHI 2025
A firmare La città e l’abisso è Claudio Bandi, professore ordinario presso l’Università degli Studi di Milano, dove tiene corsi di Evoluzione biologica, Storia della biologia e Storia del pensiero scientifico. Già consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha tenuto corsi e seminari in varie università e centri di ricerca in diversi paesi europei, negli USA, in Giappone e in Brasile.
Vincitore del premio Tedeschi al suo esordio nella narrativa, Milanonera lo ha intervistato.
Docente universitario, pur avendo pubblicato oltre cinquecento scritti tra relazioni, articoli e capitoli di volumi scientifici, sei al tuo esordio letterario in narrativa e hai fatto subito centro. Con quali aspettative hai iscritto il tuo romanzo al Premio Tedeschi?
Potrei dire che avevo grandi speranze, ma ero preparato alle speranze deluse. È la vita del ricercatore: si scrivono progetti di ricerca in cui si crede, o articoli scientifici frutto di mesi o anni di lavoro, li si invia a un ente finanziatore o a una rivista importante. Poi si attende. A volte va, molte volte no. E allora si riprova, puntando magari a un finanziamento più piccolo, o a una rivista meno prestigiosa. Ma quello che conta è crederci, lavorare sempre al meglio delle proprie possibilità. Rileggere il proprio articolo o progetto e sentire di aver dato tutto. Con il Premio Tedeschi non è stato diverso: sapevo di aver scritto una bella storia, ma con l’umiltà di chi sa che altri potevano avere scritto storie più belle.
Qual è stata la tua reazione quando hai ricevuto la telefonata del direttore del Giallo Mondadori, Franco Forte, che ti ha annunciato la vittoria a tale storico premio?
Sapevo di essere tra i finalisti, ma il problema è che lo sapevano anche i miei amici e mio cognato. Quando risposi al telefono e il mio interlocutore si presentò come Franco Forte, ero convinto fosse uno scherzo – di quelli perfidi che ti fanno solo gli amici più veri. “Un sodale di mio cognato”, pensai. E invece no, era davvero Franco Forte. Cosa provai? Qualcosa di simile a quando vinci il concorso per la prima borsa di studio in università o fai una scoperta importante. Un’emozione fortissima, la percezione di un sogno che si realizza, una porta che si apre.
“La città e l’abisso”, il tuo romanzo il cui titolo in origine era “Il dito di Galileo”, è ambientato nel 1952, a Los Angeles e in alcune località limitrofe. A cosa è dovuta la scelta di tale location tanto lontana dall’Italia sia per distanza chilometrica che per cultura?
Avevo la necessità di collocare la mia storia in un luogo dai contrasti estremi. La Los Angeles di quegli anni era una città unica, la cui popolazione era passata da centomila abitanti a quasi due milioni in una cinquantina di anni. Una crescita, e quindi una quantità di denaro, che creavano opportunità di sviluppo, ma anche di corruzione e ampi margini di profitto per il crimine organizzato. Ma c’era anche un’altra ragione per scegliere gli anni ’50. Volevo un mondo senza DNA, celle telefoniche, computer e telecamere. Dove le indagini si basavano sull’intuito e sulla capacità di muoversi nei bassifondi. L’anno 1952 ha poi un valore simbolico: l’anno in cui Ray Bradbury scrive Fahrenheit 451, in cui al Premio Nobel Linus Pauling venne ritirato il passaporto, l’anno in cui un afroamericano fu eletto presidente di un’associazione studentesca dell’Università della California.
Il tuo protagonista, il poliziotto privato William Slaytor, ha tutte le caratteristiche degli investigatori della scuola americana nota al grande pubblico come hard boiled. Ti riconosci in questa definizione?
Non c’è dubbio: William Slaytor è un detective hard-boiled. Ma non era facile proporre una figura simile ai lettori del 2025. Per quanto io abbia amato personaggi come Philip Marlowe e Sam Spade, erano uomini del loro tempo: spesso omofobi, talvolta sessisti. Per alcuni critici anche un po’ razzisti. Così ho immaginato un William Slaytor che racconta la sua storia quarant’anni dopo. Un uomo che ha superato l’ottusità dei trent’anni, più vicino alla sensibilità attuale. Dunque, William Slaytor è un duro, come i suoi colleghi delle storie pulp. Ma è anche un uomo che ha compreso la bellezza della diversità umana. Ci sono altri aspetti che differenziano Slaytor dal classico detective hard-boiled: beve, ma poco; non è un gran fumatore; non è un ex poliziotto bruciato. Anzi, i suoi rapporti con la polizia sono, tutto sommato, buoni. Lo riconoscono come uno di loro.
Nella stesura del romanzo quanto è stata importante la città reale di Los Angeles, ma anche la location dell’immaginario collettivo tanto celebrata al cinema e in letteratura?
Direi entrambe. In un certo senso, Los Angeles la conosciamo tutti, anche se non ci siamo mai stati. L’abbiamo attraversata leggendo autori come Chandler e Connelly, abbiamo percorso le sue strade con John Travolta in Pulp Fiction, con Jeff Bridges ne Il grande Lebowski, con Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia. La città reale e quella immaginaria si sono fuse nel nostro immaginario. D’altra parte, anche i criminali reali finirono per imitare quelli del cinema: Hollywood si ispirava ad Al Capone, mentre i suoi successori si ispirarono ai duri del grande schermo, come James Cagney, George Raft e Humphrey Bogart, in un cortocircuito di imitazioni reciproche. Dunque, dove finisce la Los Angeles cinematografica e dove inizia quella reale? Forse è quella letteraria, raccontata magistralmente da Raymond Chandler, ad aver preso il sopravvento. C’è molto Chandler in Tarantino, e molto Chandler e Tarantino nella Los Angeles che ho cercato di raccontare.
Nel suo peregrinare per le strade della California, alla ricerca di un assassino e di una ragazza scomparsa, Slaytor andrà a comporre un grande affresco di una società la cui opulenza era costruita sullo sfruttamento di masse di disperati. Quanto è importante la credibilità del contesto storico in un noir?
Questa è una bellissima domanda. Cosa rende credibile un contesto storico? Blade Runner è uno dei capolavori del noir. È fantascienza, una Los Angeles che non è mai esistita e forse non esisterà mai. Eppure, è un futuro maledettamente credibile, quasi tangibile, toccabile. Ma gente come Philip K. Dick e Ridley Scott sapeva costruire mondi, rendere credibile l’incredibile. Qualcosa che io non sarei stato capace di fare. Perciò ho cercato di ricostruire la Los Angeles storica: le automobili, i luoghi, il maccartismo e la guerra fredda sullo sfondo, le persone che si potevano incontrare in una biblioteca universitaria o in una stazione di servizio di Hollywood. Ma forse non sto rispondendo del tutto alla tua domanda. Il contesto deve essere credibile, in una storia noir? Sì, deve esserlo. Perché solo in un contesto credibile anche le vicende ai limiti del possibile possono diventare reali.
Tra tante nefandezze e miserie umane, emergono quattro donne che, seppure in modo diverso e ai margini opposti della società nella California degli anni ‘50, lottano per essere le artefici del proprio destino. Un messaggio valido ieri come oggi?
Durante la Seconda Guerra Mondiale, in America, molte donne vissero un cambiamento radicale: lavorarono, guidarono l’auto, sostennero l’economia del Paese. Donne che presero coscienza delle proprie capacità. Ma finita la guerra, i ruoli tradizionali tornarono a imporsi. Era l’America della villetta, dei due figli, della donna di nuovo “angelo del focolare”. Nel mio romanzo, invece, emergono quattro donne che non si adattano a questo modello. Sono emerse da sole, in modo prepotente, mentre scrivevo. Si sono fatte strada, mi hanno fatto capire che erano loro a decidere cosa avrebbero fatto della loro vita. Un messaggio valido anche oggi? Assolutamente sì. Credo che esistano ancora luoghi e contesti in cui la libertà di una donna, o di chiunque non rispecchi il modello dominante, sia molto lontana dal potersi realizzare. La Los Angeles di William Slaytor era una città dura, ma offriva una possibilità. Una donna doveva combattere per diventare artefice del suo destino, ma era possibile. Nel mondo reale, purtroppo, esistono luoghi in cui questa battaglia nemmeno può iniziare. Ed è un peccato: un universo di sensibilità e intelligenza che rischia di andare perduto per sempre.
Fresco vincitore del più prestigioso premio italiano per la narrativa gialla, che consigli ti senti di dare a chi si vuole mettere in gioco e vuole partecipare alla prossima edizione?
Qualcuno mi diceva che un romanzo ambientato a Los Angeles, scritto da un italiano, non sarebbe mai stato preso in considerazione da una casa editrice. Stavano quasi per convincermi. Ma poi decisi di seguire la mia passione, di scrivere ciò che mi divertiva. Volevo salire su una Pontiac Streamliner, imboccare il Sunset Boulevard e arrivare a Santa Monica. Volevo entrare nella City Hall, andare alla Union Station, passare per la Morgue. Luoghi che abbiamo visitato decine di volte, nei libri o al cinema. Ecco il mio consiglio: la vostra storia deve divertirvi, appassionarvi, farvi venire voglia, mentre scrivete, di scoprire cosa accadrà nella pagina successiva. Deve nascere in luoghi che conoscete, che avete amato o odiato. E poi, finita la parte creativa, dedicatevi con impegno alla revisione. Ogni dettaglio, ogni sequenza, ogni concatenazione deve essere perfetta. Se vi sarete divertiti prima, e avrete sofferto poi, nella revisione, allora sarete pronti per provarci davvero.
@per le foto ringraziamo Franco Forte il sito ufficiale del MystFest 2025