Il morso del varano – William Bavone




Il morso del varano
Newton Compton
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Il morso del varano, edito da Newton Compton, narra la prima indagine dell’ispettore Nico De Luca in quel di Bologna, a firma di William Bavone. In ossequio alla legge del giallo secondo la quale nulla succede per caso, ci piace indicare proprio nell’incipit di questa recensione quello che l’autore ha scritto nei ringraziamenti alla fine del suo romanzo: “Il 2022 mi ha visto in ben quattro finali del circuito dei concorsi Mondadori, ma non nel Premio Tedeschi. Caduta e risalita. Sì, perché se ci credi ti rialzi e vai avanti. La sconfitta sarà stata per via della mia scrittura (forse) un po’ troppo nera per il Giallo o perché semplicemente non era destino, ma ne sono felicissimo. Ho ripreso la storia e l’ho portata avanti.”

Leggendo queste righe è immediato pensare alla storia tra il giallo e il noir che ci racconta e che ha come focus l’assassinio di un giudice a cui fanno seguito altre morti misteriose. 

In primo luogo, perché all’inizio dell’opera troviamo il primo di un monologo in chiave noir che funge da potente innesco per la trama e stimola a dovere l’attività di investigazione del lettore. Da allora in poi queste sezioni dal tono di voce bipolare si alternano strategicamente alla pacatezza delle parti raccontate in terza persona dal punto di vista dell’ispettore Nico De Luca, fornendo indizi e delineando piste probabili o devianti.

In seconda battuta la consistenza umana del suo protagonista ci dimostra di pagina in pagina la determinazione con cui Bavone ha guardato in faccia il suo sogno. Il suo ispettore denominato Salentino Albino, di origini pugliesi come lui ma con la barba color rame e trapiantato nella città di Lucio Dalla, non si fa mai uno sconto, al netto di una nipote ribelle a carico e di una vita personale tacitata in un angolo. “De Luca pensò al tempo per sé stessi che in quel mestiere non era previsto. Non c’era mai tempo per prendersi cura nemmeno di un maglione. Indispensabile era solo correre, correre più veloci del delitto. E lo sapeva bene l’ispettore, lui che aveva chiuso la propria vita privata in uno spazio di cinquantaquattro metri quadri, un frigo vuoto e un congelatore pieno di cibo precotto da rendere commestibile in microonde”. 

Le indagini, che fungono anche da motore di trasformazione personale, si intrecciano con il passato salentino dell’ispettore, con i suoi ricordi caldi e talora sferzanti. Ci piace ricordare la saggezza semplice di nonno Cosimo, ancorata alla fede. In questi punti, agli scatti delle sequenze narrative crime, la scrittura consapevole alterna pennellate intimistiche che arricchiscono il sostrato familiare del personaggio: “La realtà è che Dio cerca di ricavare il meglio da tutti noi e per tutti noi. L’uomo ha la possibilità di scegliere se accontentarsi oppure no e l’avido purtroppo non troverà mai pace in Dio. Anche io prendo da quelle mani, ma cerco sempre di lasciarci qualcosa con il mio lavoro”. 

In questo senso, originale e ben contestualizzata appare la decisione ‘innovativa’ per l’ispettore di prendersi cura di un bonsai di olivo. Una scelta che lo restituisce alla sua terra di origine ma che si presta anche a sfrondare in modo simbolico i ragionamenti finalizzati all’individuazione dell’assassino, dimostrandoci che recuperare le proprie radici funziona a più livelli:

La pianta aveva un arbusto centrale spesso, con la sua corteccia formato mignon a proteggerla fino alle fronde. Lì c’erano quattro diramazioni, ognuna con le sue foglie. L’ispettore doveva scegliere ora come impostare le indagini, in che direzione muoversi per mettere spalle al muro l’assassino”.

Monica Sommacampagna

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