Alla luce del buio – Lo spazio nero 13

Quante sono le dimensioni del reale? Tre. I più fortunati diranno: quattro. Altezza, larghezza, profondità e tempo. Tutto scontato, tutto semplice. Tutto banale.

Io mi nuovo nel reale, mi muovo in uno spazio – uso quindi le tre dimensioni materiali – e mentre lo faccio passano i secondi. E quindi mi muovo nel tempo.

Talmente banale che, sostanzialmente, è falso. Eppure questa semplicità – o meglio: questa semplificazione – ci serve. Per vivere. Se vi scrivessi – e non è Fabio Fracas, o almeno solo lui – che le dimensioni attualmente conosciute sono nove e che, secondo alcune teorie fisiche, potrebbero essere – anzi sono – 6,023 * 10 alla 23ma questo potrebbe crearvi dei problemi. O almeno così è stato nel mio caso.

Accettare che la mia percezione del reale sia limitata, ristretta e quindi, in una parola, sbagliata è stato difficile. Anche adesso, a volte, lo è. Eppure, così è.

Quante sono le dimensioni di uno scritto? I suoi piani di esistenza e di comprensione, i piani di lettura, i messaggi impliciti ed espliciti che nasconde, è un ulteriore problema.

Molti libri non sono quello che i loro lettori pensano. “Il piccolo principe” di Antoine De Saint-Exupéry, “Il gabbiano Jonathan Livingston” di Richard Bach, “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, “Il nome della Rosa” di Umberto Eco e altri sono forse i casi più conosciuti. Anche “La sfinge dei ghiacci” di Jules Verne,“I pilastri della terra” di Ken Follett, “La camera dello scirocco” di Ben Pastor e altre produzioni recenti – o recentissime – usano nascondere all’interno di un piano di lettura primario, di semplice comprensione, uno o più piani di lettura superiori molto più difficilmente accessibili.

Questi piani ulteriori, queste dimensioni “altre” dello scritto, vengono genericamente definite come: metalinguaggio.

E lo diceva chiaramente anche Alfred Tarski, insigne matematico e logico, nel saggio “La concezione semantica della verità e i fondamenti della semantica”. Ecco il brano in oggetto:

“Dal momento che abbiamo stabilito di non usare linguaggi semanticamente chiusi, dobbiamo usare due diversi linguaggi per discutere il problema della definizione della verità e, più in generale, ogni problema nel campo della semantica. Il primo di questi linguaggi è il linguaggio “di cui si parla” e che è oggetto dell’intera discussione; la definizione di verità che stiamo cercando si applica agli enunciati di questo linguaggio. Il secondo è il linguaggio nel quale noi “parliamo intorno” al primo linguaggio e in termini del quale vogliamo, in particolare, costruire la definizione di verità per il primo linguaggio. Ci riferiremo al primo linguaggio come al “linguaggio-oggetto” e al secondo come al “metalinguaggio”. […] In questo modo arriviamo a una vera e propria gerarchia di linguaggi.”

L’intero lavoro di Tarski si può leggere nel volume “Semantica e filosofia del linguaggio” curato da L. Linsky e pubblicato, per le edizioni “Il Saggiatore”, nel 1969.

A proposito: di cos’è che stavamo parlando?

Fabio Fracas

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