Nuovo intrigante romanzo a fosche tinte noir venate di magia e di peccato in cui tornano le stupende immagini parlanti della città e le maestose e struggenti descrizioni che Tiraboschi ruba al medioevo per rendercele vicine, quasi palpabili. Una Venezia ancora in divenire, una città inedita, fatta di sporcizia, fango e paludi, in cui i palazzi si mischiano alle stamberghe, ancora molto lontana dalla iconografia classica della Serenissima a noi più nota; una città solo desiderosa “di rubare terra alle acque e di edificare sul nulla”. Un ricettacolo di miasmi e miseria, in certe zone, sestieri o calli ma che può riscattarsi nei giardini e nelle dimore signorili, in un’antica cornice fatta di colori, profumi e incanto, nonostante i pericoli di una vita sempre in bilico fra la acque putride della laguna.
Ma lasciamo lo scenario e torniamo alla trama, coinvolgente e drammatica quanto basta.
Venezia, maggio 1172. La città, in preda a una bestiale rivolta di popolo che dilaga per le calli fino a raggiungere il palazzo del doge e la basilica, chiedendo giustizia e spiegazioni . Un’ immane folla inferocita che avanza travolgendo persone e cose e appiccando il fuoco intende imputare a Vitale II Michiel tradimento, incapacità e vigliaccheria per la bruciante disfatta dell’orgogliosa flotta di cento navi al suo comando partita verso Costantinopoli per battersi contro l’imperatore Comneno che aveva tradito e offeso i residenti veneziani. Ma, per un serie di errori tattici, navi e equipaggi, dopo essere stati coinvolti in sterili scaramucce, erano rimasti fermi in attesa all’isola di Skyros e là colpiti da una letale epidemia di peste. Una vera strage che, dopo aver causato la morte dei più valorosi combattenti delle nobili famiglie veneziane, aveva acquisito il sapore di una bruciante sconfitta. Alla fine, infatti, solo diciassette navi avevano fatto ritorno in patria . E con i superstiti era arrivata anche la peste. La prima della storia di Venezia.
La più grande flotta del Mediterraneo decimata, tutte le attività commerciali cancellate. L’intera città in ginocchio. Impossibilitato a fornire valide spiegazioni dopo aver tentato vigliaccamente la fuga, Vitale II Michiel, eletto per acclamazione dal popolo, (fino ad allora quello era sempre stato il modo per eleggere un doge) verrà assassinato dai rivoltosi sul sagrato della chiesa del convento di San Zaccaria. Era il terzo giorno prima delle calende di giugno dell’anno 1172.
Il compito più urgente ora sarebbe scegliere un nuovo Doge gradito al popolo e capace con pugno di ferro di prendere in mano la situazione e controllare gli umori dei veneziani. Una nomina importante e come conseguenza l’inevitabile lotta per conquistare un dominio che offre lustro e ricchezza e naturalmente solletica gli appetiti dei membri più ambiziosi e influenti della nobiltà.
Sicara Caroso, ventottenne badessa del monastero di San Lorenzo, erborista sopraffina, allieva e seguace di Ildegarda di Birgen, donna ancora molto giovane e di straordinaria bellezza, impotente testimone della fatale rivolta popolana, sta cercando di raggiungere nella laguna l’isolotto di San Giacomo in Paludo, che ospita sia l’hospitium destinato ai pellegrini e ai mendicanti che un monastero in costruzione, promosso dalle donazioni delle nobilissime famiglie Mastropiero e Gradenigo, ma ancora sotto il patrocinio di San Lorenzo (e quindi il suo) .
L’ aiuto e la venuta di Sicara Caroso sono stati richiesti affinché nella sua riconosciuta facoltà di esorcista liberi dalle spire del demonio una giovane monaca, Persede Gradenigo, in preda a un delirio che la costringe a una scomposta danza bestiale. Con l’aiuto di un sacerdote del vicino hospititium, la badessa sarà in grado di eseguire il lungo e simbolico rito e con apparente successo. La ragazza dopo sembra come risvegliata da una cattivo sogno ma… Passano pochi giorni e mentre si tentano di calmare gli incontrollabili furori del popolo affidandosi alla predicazione del vescovo e si organizzano alla chetichella i funerali di Michiel, dal fondo del pozzo del Monastero sull’isolotto di San Giacomo in Paludo viene ripescato il cadavere di Persede Gradenigo. Le sue consorelle sono convinte che si sia tolta la vita, costretta dal demonio che la possedeva. La badessa, benché dalla bocca della povera morta riesca ad estrarre un rospo ritenuto il simbolo di Satana, non ne è convinta. Vuole chiarire quella tragica fine e restituire a Persede i suoi diritti a una cristiana sepoltura. E i suoi dubbi, che la metteranno in contrasto persino con la famiglia della morta e la costringeranno quasi ad affrontare uno scontro con i suoi superiori religiosi, la spingeranno a sollecitare l’aiuto di Nicolò Barattiero, eccelso architetto di San Marco ma inveterato giocatore sfegatato. Aiuto però che non le pare sufficiente. Ragion per cui Sicara Caroso, un investigatore molto speciale che non può e non vuole fermarsi, nonostante il crudele imperversare della peste che prosegue la sua mortale corsa e i suoi fantasmi, saprà intraprendere e portare a termine da sola la sua personale, difficile e complicata indagine alla ricerca della verità. Ma non sarà che poi il diavolo vorrà metterci la coda?
Proprio in quei giorni Venezia si trova coinvolta in una grande e auspicata svolta politica che sta provocando uno scontro diretto tra “populismo” e “democrazia”. Il Consiglio dei Savi è diviso. Diversi membri sotto la spinta di Mastropiero, sostenuto anche dal ricchissimo mercante Sebastiano Ziani, spingono soprattutto per cambiare parzialmente il sistema per eleggere il Doge: insomma la vecchia regola che concedeva l’arduo compito solo al popolo e invece riuscire a trovare un diverso ma accettabile metodo per incanalarne la volontà. Un metodo non più affidato alla proclamazione diretta affidata al popolo, ma a pochi prescelti, selezionati tra i rappresentanti dei cittadini. Un cambiamento epocale addirittura in grado di determinare e cambiare il futuro assetto della città.
Venezia, disponeva e intende continuare a disporre della ricchezza legata ai commerci e alla sua straordinaria posizione territoriale.
L’istinto di Tiraboschi, sceneggiatore cinematografico di gran livello, si compenetra profondamente nello scenografico raccontare di Tiraboschi scrittore con precisi quadri storici e geografici di grande impatto visivo e mentale. Descrizioni, le sue, degne di un esperto documentarista in grado di cogliere l’intima testimonianza di ogni particolare, anche il più crudo. Ma inanella anche storie piene di personaggi reali quali quella plausibile dell’intelligenza e capacità del Doge Ziani e la sua volontà di trasformare il brolo, la piazza davanti San Marco fino allora suddiviso tra diversi proprietari e coltivato a orti, nella la splendida piazza lastricata a pietra e fiancheggiata da edifici arricchiti da arcate. E mischia al suo romanzo anche la storia di colui che ne sarà l’architetto esecutore: Nicolò Barattiero , semileggendario architetto, costruttore di origine lombarda, (bergamasco?) che operò a Venezia. Sotto il dogado di Vitale Michiel 11 (1156-1172), lavorò con Bartolomeo Malfatto a edificare la cella per il campanile di S. Marco, da tempo sorto su preesistenti fondazioni romane. Per l’occasione si servì di casse di legno, mosse da carrucole, per far salire fino alla sommità del campanile i materiali necessari. Sotto il dogado di Sebastiano Ziani (1172-1178), riuscì a raddrizzare nella piazzetta San Marco le due grandi colonne di granito rosso e grigio che con una terza, la leggenda narra inabissata durante le operazioni di sbarco, erano arrivate tanto tempo prima dall’Oriente. Le robuste basi decorate da sculture allegoriche e i sobri capitelli delle colonne, probabilmente opera del Barattiero, ci tramandano il suo gusto bizantineggiante. Le cronache narrano poi come, per la grande bravura dimostrata, le autorità gli concessero di gestire tra le due colonne un pubblico gioco d’azzardo, in deroga alle leggi cittadine. Sotto Il Doge Ziani o il suo successore Orio Mastropiero (1178-1192) .Sempre sotto lo Ziani o il successore Orio Mastropiero (1178-1192), costruì il primo vero ponte di Rialto, in legno.
Prima di allora le due rive erano collegate solo da un ponte di barche.
Il rospo e la badessa – Roberto Tiraboschi
Patrizia Debicke