Dale Furutani, hawaiiano di origini giapponesi, è uno scrittore di classe. Appartiene a quella razza rara di creatori di storie capaci di coniugare la finestra dei generi con il rigore.
Nella trilogia dedicata al ronin Matsuyama Kaze, samurai senza padrone in giro nelle pericolose strade del diciassettesimo secolo, poco dopo la rovinosa sconfitta della sua casata nella campale battaglia di Sekigahara, si sposano infatti sia un affresco storico-sociale molto credibile che una prosa dal taglio classico.
Kaze, il cui nome vuol significa «Vento della pineta», è alla ricerca di una bambina scomparsa. Una promessa solenne lo lega, un filo diretto con il codice del bushido in cui, in un mondo alla deriva, è tra i pochi a credere ancora. Sulla sua strada, come nei precedenti capitoli della saga, un oceano di imprevisti.
Se in Agguato all’incrocio e in Vendetta al palazzo di giada risaltavano le premesse, in A morte lo shogun si tirano le fila in nome delle conseguenze. Il rapporto causa-effetto trova il suo fatale compimento in un’opera dove l’azione, più insistita del solito, non è mai fine a se stessa; piuttosto un mezzo per esplicitare le pulsioni che regolano un’epoca realmente esistita ma ormai dimenticata.
L’omaggio ai capolavori della tradizione chambara e il ritmo cinematografico della narrazione, scandita da capitoli brevi e dialoghi serrati, si fanno ancora più evidenti.
Kurosawa Akira, Gosha Hideo e Mizoguchi Kenji risplendono di vita propria, e il loro spirito cristallino riluce più che mai di onore e gloria. Il grande pregio di ognuno dei tre libri – A morte lo shogun non fa eccezione - è l’eccellente fruibilità singola, anche se è come parte di un insieme ben strutturato e magistralmente descritto che trova il compimento ultimo.
Per amanti dell’azione e per appassionati di cultura e filosofia orientali: nessuno ne rimarrà deluso.
A morte lo shogun
matteo di giulio