Non so se capita anche a voi. Di rileggere un libro. Dalla prima all’ultima pagina e di trovarlo ancora più bello. A me è capitato e capita ancora oggi. Come è successo con La tavola fiamminga di Arturo Pérez Reverte, Il Saggiatore 2008.
Dunque un antico quadro fiammingo del XV secolo e una frase enigmatica “Quis necavit equitem?”, ovvero “Chi ha ucciso il cavaliere?” a caratteri gotici venuta alla luce per mezzo di raggi infrarossi durante il restauro da parte di Julia. Il quadro ritrae una partita a scacchi (questo è anche il suo titolo) tra un cavaliere assassinato e il suo principe che, forse, è addirittura il mandante dell’omicidio. La chiave del mistero sta nel ricostruire a ritroso, attraverso cioè una analisi retrospettiva, tutta la partita. E questo può essere fatto con l’aiuto dell’esperto di scacchi e di matematica Munõz. Un personaggio singolare dall’aspetto dimesso ( a Julia sembra “un anonimo impiegato”) che nutre una estrema fiducia nelle leggi della Logica (messe bene in rilievo da Carlo Toffalori nel suo “Il matematico in giallo”, Guanda 2008). E che tira fuori la frase, ormai diventata famosa, “Io direi che, più che con l’arte della guerra, gli scacchi hanno a che fare con l’arte dell’omicidio”.
Il passato entra poi prepotentemente nel presente attraverso una serie di orrendi delitti che sembrano essere collegati a questo ritrovamento e coinvolgono la giovane Julia. E dal fatto che l’assassino vuole continuare a giocare l’antica partita. Una partita particolare in cui gli stessi personaggi diventano i pezzi degli scacchi.
“Quis necavit equitem?” ritorna più volte, direi rimbomba più volte, lungo tutto il romanzo anche quando non viene menzionata, per mantenere un’atmosfera di mistero, coinvolgente e a tratti quasi gotica. Julia ”Era davvero intrigata dal quadro e dall’iscrizione nascosta; ma non si trattava solo di questo. La cosa più sconcertante era che, allo stesso tempo, provava una strana apprensione. Come quando era piccola e in cima alle scale di casa doveva farsi forza per affacciare la testa dentro il solaio buio”. Oppure “Ma la paura che Julia aveva appena scoperto era diversa. Nuova, insolita, sconosciuta fino ad allora, maturata all’ombra del Male con la M maiuscola, iniziale di ciò che sta all’origine della sofferenza e del dolore”. Infine “Julia guardò innanzi a sé, continuando a camminare. Tutti i suoi muscoli lottavano contro la necessità imperiosa di mettersi a correre, come quando era piccola e attraversava l’androne buio di casa sua, prima di salire d’un balzo le scale e bussare alla porta”.
La parte finale, quella dello smascheramento dell’assassino, lascia un po’ a desiderare. Ma non si può avere tutto. Stile sicuro, deciso, ritmo serrato. Da vero scrittore.
Il “New York Times” lo giudicò alla sua uscita “geniale, elegante, sofisticato”. Io lo considero un buon libro. Buono davvero.