Riferimenti – poco – classici

Ci sono alcuni libri che tutti – meglio: tutti quelli a cui interessa la letteratura – conoscono. O almeno, pensano di conoscere. Generalmente vengono definiti con il termine di “classici” oppure con l’ambigua definizione di “capolavori”.

“Capolavoro”, inoltre, viene utilizzato anche come sinonimo di “classico” per quei libri che hanno dimostrato a distanza di anni, decenni o secoli di avere sempre “qualcosa di nuovo e di importante da insegnare”.

Affermare che tutti i classici siano dei capolavori–a mio modesto giudizio – è, però, eccessivo. Sotto vari punti di vista. Così com’è eccessivo – sempre a mio modesto parere – affermare che, come si legge spesso nelle pagine di critica letteraria, molte delle attuali produzioni siano esse stesse dei capolavori.

Il problema, però è che molte delle attuali produzioni si rifanno, spesso inconsapevolmente, a dei classici. E che di quest’ultimi – in alcuni casi – ci si è incolpevolmente dimenticati.

E questo, purtroppo, perché la nostra conoscenza dei “classici” è stata via via ristretta a un numero – anche se materialmente grande – esiguo di opere.

Se prendiamo la definizione originaria del termine “classico” troviamo quanto segue: “si dice di scrittore, di artista o di opera che, per la loro eccellenza, sono ritenuti degni di imitazione, al pari dei modelli dell’arte classica: un’opera classica della poesia contemporanea”. La definizione è tratta dal dizionario Garzanti.

Quel “degni di imitazione” è dunque il fulcro del concetto di classico.

E nel caso di “capolavoro”? Torniamo al dizionario Garzanti: “opera eccellente; l’opera migliore di un autore, di un’arte, di una corrente letteraria o artistica, di un’epoca: questa statua è un capolavoro; l’«Orlando Furioso» è il capolavoro di Ludovico Ariosto”.

In quest’ultimo caso, il fulcro è quindi “l’opera migliore di”.

L’aggettivo “eccellente”, per compiutezza, compare in entrambe le definizioni.

Quanti classici conosciamo realmente? Cioè: quanti classici abbiamo interiorizzato, assimilato, compreso e fatti nostri?

E di quanti dei libri, contemporanei o meno, che leggiamo sappiamo riconoscere le origini, i modelli, i riferimenti e – nel caso così fosse – l’essere “l’opera migliore di”?

Riprendo quanto ho già citato nello scorsa puntata de “Lo spazio nero”: “Non è vero, come si afferma in certi dipartimenti di filosofia degli Stati Uniti, che per filosofare non sia necessario rifarsi alla storia della filosofia. Sarebbe come dire che si può diventare pittore senza aver mai visto un quadro di Raffaello, o scrittore senza aver mai letto i classici.”

Lo scrive Umberto Eco a pagina 339 del saggio “La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea” –Laterza, 1993 – ma l’aveva già affermato – in altra forma – Italo Calvino nel suo saggio del 1991 “Perché leggere i classici”.

Al punto 7, infatti, troviamo quanto segue: “I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).

La “traccia” che li rende degni di imitazione e che, a propria volta, li rende imitazione di altri classici forse dimenticati.

Fabio Fracas

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