Piero il grande. Il papà del maresciallo Binda. L’indagatore del tesoro che riposa dentro al nero. Nelle vene di Milano. Poeta dei bassifondi. Abbiamo parlato con Piero Colaprico.
Cosa può offrire oggi la Città di M. per una trama noir?
Di tutto, qua non manca niente. Dal crimine organizzato, alla ‘ndrangheta, alle gang sudamericane, agli slavi ex guerriglieri, alle bande dei cinesi, ai baby killer, ai serial killer. Quello che uno cerca, a Milano trova. Nella caccia alla trama, però, meglio muoversi con prudenza, per non finire dalla parte delle prede.
Come si troverebbe oggi il maresciallo Binda in questa nuova Città di M. che tace lo spazio che ha consegnato alla ‘ndrangheta, che chiede l’anagrafe dei clochard e urla contro il pericolo atomico dei rom?
Binda non voleva cambiare il mondo, ma fare «il suo». Non credo che avrebbe accettato che le forze dell’ordine subissero ordini dai politici, non per disistima (Binda è figlio di un artigiano socialista), ma perché a ciascuno il suo mestiere. Nella Quinta stagione parla di un mondo sfuggito di mano e combatte a settant’anni contro un clan di giovani albanesi.
Oggi qual è la città noir per eccellenza?
In Italia Milano, ma l’ex Bombay sta andando mi pare alla stragrande.
Esistono “giallisti senza saperlo”? Penso allo Shakespeare del Macbeth o al Dostoevsky di Delitto e castigo.
No, credo sia un luogo comune. Il delitto fa parte della vita e della morte di non poche persone o famiglie e comunque in ogni casa come si parla di salute, di amici, di politica, così si parla delle tragedie. Ma un conto è scrivere gialli e noir, che hanno una loro regola, un conto è scrivere Delitto e castigo.
Ci sono libri cosiddetti mainstream che fanno pena e gialli bellissimi, ma non confonderei troppo le acque. Graham Greene credo abbia lasciato alcuni capolavori, ma il suo ideale era distrarci, farci viaggiare con la fantasia tra trame, gialli e delitti. Alcuni autori vogliono spiegare il mondo e non sanno nemmeno allacciarsi le scarpe. Poi fingono di essere grandi autori, bisogna pur tirare a campare se si teme l’oblio.
Qual è il suo noir dei noir?
Come tutti, ne ho più d’uno. Però sono affezionatissimo a Colpo di spugna.
E il più bel personaggio creato da un giallista?
Anche questa domanda prevede risposta multipla. Però Maigret…
È d’accordo con chi afferma che in Italia oggi un giallista è capace di fotografare la realtà, di interpretare lo spirito del tempo meglio di uno scrittore non di genere?
Dalla morte di Testori, Sciascia e Buzzati chi è lo scrittore non di genere che aspettiamo in libreria? È un periodaccio per la nostra letteratura cosiddetta alta, mentre noi giallisti acchiappiamo la sensazione di stare nel giusto e nel vero.
Per un giallo meglio gli ampi spazi americani o la piccola provincia padana?
Gli spazi americani senza dubbio. La metropoli comunque. La campagna e la provincia possono essere scenario di grandi violenze, o di follie, ma è difficile immaginare una grande inchiesta tra le cascine e le cacche delle mucche.
I tradizionalisti dicono: la grandezza del giallo è l’intreccio, togliete la centralità dell’intreccio e quel tipo di storia avrà un altro colore. Cosa ne pensa?
Approvo, con variante: i protagonisti positivi e negativi devono essere credibili e attrarre, nel bene e nel male, chi legge.
Come procede il suo prossimo romanzo?
Ho avuto delle lentezze, ma è il meglio di quanto scritto sinora. Milano, una giovane poliziotta, una grande rapina, una vendetta che si serve fredda, un jolly. Queste le cinque carte del mio poker.
Di lei si parla come il vero figlio di Scerbanenco. Non è arrivato il momento di cercare il figlio di Colaprico?
No, non esiste. Per varie ragioni. Il successo europeo di Scerbanenco non è paragonabile al mio, molto minore, almeno per ora, ma non dispero. Rivendico poi di essere rimasto uno tra i pochi cronisti di nera in servizio permanente effettivo e, nello steso tempo, un giallista che pubblica senza troppe pause. Negli articoli cerco di stare ai fatti, nei libri di addomesticarli, ma in tutti e due i casi amo la credibilità. I
n giro, non lo dico per vantarmi e fare differenze, vedo troppa fuffa. Quindi è bene che ci siano nipoti di Scerbanenco, e tanti si autoproclamano così, tanto lui purtroppo non c’è più. Ma figli di Colaprico, finché io campo, niente. Uso e userò l’anticoncezionale, finché non sono sicuro che ci sia un giallista che mette al centro della scena non le sue ossessioni, ma la strada.
Con Pietro Valpreda ha dato vita a un magnifico personaggio: il maresciallo Binda. Chi Pietro Valpreda visto da vicino?
Un uomo più buono di quello che si pensa. Senza volerlo offendere, e dando un valore positivo a questa parola, che calza anche su di me, un “cazzone”, cioè uno che ama lo scherzo, non prendere tutto sul serio, tentare di vivere con leggerezza anche le cose tristi e cupe.
Se siamo tristi, ce lo teniamo dentro, con gli estranei. Non pesiamo sugli estranei. Valpreda parlava come Binda, nel senso che la sua voce risuona nel vecchio maresciallo. E Valpreda ha trovato nella «Primavera dei maimorti» un personaggio, Metim Metim, che secondo me è tra i più simpatici… incontrati.
Dovesse scrivere un epitaffio sulla sua tomba: Qui riposa…
Uno che s’è fatto un mazzo così, porca miseria, perché nato non ricco. Ma, scongiuri a parte, vorrei citare la chiusura del film Papillon: “Bastardi, sono ancora vivo”.