L’avvelenatore – Intervista a Emanuele Altissimo



 

 

 

 

Ringraziamo Emanuele Altissimo autore di L’avvelenatore, Bompiani, per avere accettato la di rispondere alle nostre domande.

Emanuele, nel tuo romanzo c’è come una forza ancestrale in grado di sottomettere la Natura e gli esseri umani. Io da lettrice potrei quasi definirla come il Male. Tu da autore che nome le daresti?

Non penso sia una forza negativa, ma di sicuro è in grado di trascinare Arno, il protagonista, all’interno di un gorgo, una specie di resa dei conti con il suo passato famigliare. Questa è la forza degli affetti. Può essere buia, capace di spezzarci se ci opponiamo al cambiamento, oppure luminosa, a patto di accettarla, di accettare il nostro passato. 

Il tuo protagonista, pagina dopo pagina, subisce una vera evoluzione, una crescita, quasi sotto gli occhi dei lettori. È tutto voluto e pensato o è semplicemente accaduto a mano a mano che scrivevi?

È voluto, sì, ma è anche parte della struttura di una narrazione. Arco di Freytag, atti aristotelici, cammino dell’eroe. Aldilà della teoria letteraria, credo che una buona storia debba mostrarci un personaggio alle prese con difficoltà sul punto di schiacciarlo. Da lettore, amo la lotta, osservare come i personaggi reagiscono, resistono, ma alla fine cambiano.

È consolante, nella vita reale non sempre accade.

Particolarissime tutte le ambientazioni del tuo libro, tanto che in alcune pagine sembra quasi di leggere una novella novecentesca. Sono luoghi che conosci di persona e che ti hanno ispirato o è solo fiction narrativa? 

Borgo Spirito è il calco del paese in cui sono cresciuto, una località nel Monferrato. Quel tipo di campagna mi ha sempre affascinato, anche prima di leggere i grandi autori piemontesi del Novecento. Penso siano luoghi sorvegliati da leggi ancestrali, magiche, molto lontane dalla vita di città.

Così, quando Arno attraversa Torino, percorre la tangenziale verso Borgo Spirito, è come se attraversasse un confine invisibile, quasi metafisico, tra realtà e mondo dell’infanzia. Un mondo di divinità capricciose, che si divertono con i destini umani.

Se dovessi attribuire un colore al tuo romanzo, quale sceglieresti e perché?

Sceglierei un blu quasi oceanico, di quelli che scorgi a venti metri di profondità, il sole una macchia lontana – ma pur sempre una presenza.

E se dovessi far tornare uno dei personaggi de L’avvelenatore in uno dei tuoi prossimi scritti, anche solo per un cameo, chi sceglieresti e perché?

Direi Marzia, la ragazza con cui Arno è cresciuto. Mi piace il suo attaccamento alla terra e lo sforzo che compie per lasciarla. In un certo senso, il suo destino poteva essere quello del protagonista: finire risucchiati nel gorgo da cui abbiamo sempre cercato di fuggire.

Lo avevo già anticipato nella mia recensione su Milanonera e anche a te personalmente: a tratti tu mi hai ricordato Dostoevskij, anche se ti schermisci per pudore. Ora però ti chiedo, quali sono gli autori che più ti hanno influenzato e ti influenzano? Cosa c’è, ad esempio, sul tuo comodino in lettura al momento?

Durante la scrittura de L’avvelenatore pensavo a Dostoevskij, a Bret Easton Ellis e al Fitzgerald de Il grande Gatsby, sì, ma adesso le mie letture sono più contemporanee. In questo momento sono in Irlanda, a Dublino, ho con me un Kindle pieno di romanzi. I ragazzi che accompagno – siamo qui per due settimane, l’idea è quella di imparare l’inglese – mi chiedono di raccontare loro che cosa leggo sempre sul pullman che ci porta in centro città: ho divorato Metodo per diventare un altro, Édouard Louis, e ora sono alle prese con l’incredibile esordio di Gwen E. Kirby, Lo schifo che ha visto Cassandra. 

MilanoNera ringrazia Emanuele Altissimo per la disponibilità

Antonia del Sambro

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