Viviamo in un mondo strambo, ragazzo mio, una civiltà bizzarra. Dove la polizia fa la parte dei lestofanti e i lestofanti fanno le veci della polizia. I politici sono predicatori e i predicatori sono politici
Lou Ford, vicesceriffo di una piccola cittadina del Texas, ha ben chiaro di come sia diventata la società americana nel 1952, in pieno boom petrolifero, dove ogni cosa è un macello di petrolio, acqua sulfurea e fango di perforazione rosso cotto dal sole e dove anche le piccole cittadine iniziano una ascesa demografica mai vista.
Proprio in questa calda atmosfera texana del dopoguerra Jim Thompson fa muovere Lou Ford protagonista de “L’assassino che è in me” edito da Harper Collins e aperto da una magnifica ed illuminante prefazione del maestro Stephen King.
Ma chi è Lou Ford? È un vicesceriffo di questa tranquilla cittadina texana fatta di predicatori, di donne di facili costumi e di un petroliere che governa dietro le quinte tutta la contea; è una persona affabile, calma, che sa capire le persone e da farle ragionare. Ma soprattutto Lou Ford è qualcosa di diverso, è macchinazione e ferocia allo stato puro è la persona che non ti aspetti. Jim Thompson lo racconta magistralmente. Lo fa parlare, come se fosse una confessione davanti un vero detective, come se Lou Ford fosse il protagonista dei Soprano’s (Tony per capirci) e avesse deciso di sedersi davanti una strizzacervelli per raccontare a cuore aperto la sua vita da assassino.
Lou è mosso da quella che lui chiama “la malattia” quel mostro che abita dentro di lui, che si risveglia improvvisamente e lo porta a compiere con freddezza un omicidio dopo l’altro senza rimpianti tanto da dire: ridevo forte, chinandomi e battendomi le mani sulle gambe. Mi piegai in due, ridendo, scoreggiando e ridendo ancora. Finché non ci fu più una sola risata, né in me né in nessun altro. Avevo consumato tutto il riso del mondo.
Questa pazzia questa “malattia” che Thompson nomina, scrivendo la parola sempre in corsivo, diventa la forza del protagonista, diventa il suo alter ego quello capace di uccidere a sangue freddo, di pianificare i suoi crimini, di scegliere con cura le sue prede senza molte giustificazioni o remore.
Lou uccide senza rimorso, non cerca di eliminare le prove anche perché la sua fama da buono, da bravo, non induce gli altri a sospettare di lui, come non sospetta di lui la sua promessa sposa.
Jim Thompson con una scrittura asciutta, oggettiva, veloce permette al lettore di entrare nella vita di Lou Ford, di scavare lentamente nel suo passato portando alla luce i ricordi di un’ infanzia complessa di cui il protagonista ha rari ricordi che rivivono nelle persone che incontra (la governante che l’ha iniziato al sesso e che lo ossessiona al punto di vederla in ogni donna che frequenta).
Quella di Thompson è l’America del dopoguerra dove inizia a profilarsi l’idea del benessere, dove il boom petrolifero cambia la geografia e l’identità di tante piccole realtà locali, è anche un’America fragile che rende l’uomo ancora più funambolo sempre sospeso tra la verità e la pazzia. L’autore non trova artifici letterari per tirare fuori il lato oscuro del protagonista; non va alla ricerca delle sue paure, non scava nella sua vita ma ricostruisce le sue debolezze e i suoi traumi in maniera ordinata attraverso una serie di confessioni fatte in prima persona.
Uno dei romanzi più interessanti del noir americano, incluso dalla prestigiosa Library of America nel volume dedicato al noir degli anni Cinquanta, è diventano un film nel 2010; come scrive Stephen King nella sua prefazione non è che Thompson ci accordi la consolazione di credere che il vicesceriffo si un mutante… anzi in uno dei passi classici del romanzo lascia intendere l’esatto opposto, ovvero che esistano dei Lou Ford ovunque.”
Jim Thompson – L’assassino che è in me
Mauro Grossi