«Cessate d’uccidere i morti, non gridate più, non gridate se li volete ancora udire, se sperate di non perire. Hanno l’impercettibile sussurro, non fanno più rumore del crescere dell’erba, lieta dove non passa l’uomo.»
Così ci ammonisce Ungaretti, e così sembra indicare anche Claudio Panzavolta, se ci fermiamo al titolo. Ma se proseguiamo nella lettura, scopriamo che non è così semplice e che il tempo non trascorre in maniera lineare e, presto o tardi, presenta i suoi conti, spesso in rosso…rosso sangue, per lo più. Ed è quello che succede a Ciparisso Briganti, detto Briga, il nostro protagonista, costretto a confrontarsi con il passato, suo e collettivo, prossimo e remoto.
La vicenda si svolge a Faenza negli anni Ottanta del Novecento. Panzavolta parte da una descrizione precisa del contesto storico, ricostruito in maniera minuziosa e credibile, riportando alla nostra memoria fatti di cronaca, rifacendosi a testate giornalistiche e a resoconti noti e meno noti. Non solo gli anni Ottanta, ma voli arditi sugli anni Quaranta, che significano guerra e lotta partigiana, e sugli anni Settanta che ci parlano di stragismo e terrorismo.
Briga, il protagonista che narra in prima persona, a seguito di un’indagine «finita male» ha dato le dimissioni dalla Polizia di Stato e lavora come detective privato. Comunista, ex partigiano, padre di un figlio adolescente, separato dalla moglie, vive una relazione appagante con Sabrina, una «compagna femminista» che ha molto sofferto ma sembra aver trovato con lui la felicità.
Ma il passato non è mai passato: gli strascichi del brigatismo rosso e del terrorismo nero, con la strage di Bologna, e il ricordo degli anni più dolorosi della Resistenza, sono indissolubilmente intrecciati. Così, siamo riportati indietro al periodo in cui si era scatenata quella che per molti è stata una guerra civile, in cui si colpiva e si veniva colpiti; in cui si veniva uccisi o si uccideva, non senza dolore e sensi di colpa.
Qualcuno però, più di altri, non ha accettato l’esito del conflitto e il nuovo ordine che ne è scaturito: spesso, troppo spesso, i colpevoli di allora sono riusciti, e riescono ancora, a infiltrarsi negli apparati statali, creandosi una nuova credibilità e lavorando nell’ombra.
Briga non è più poliziotto da quando, cinque anni prima, non aveva creduto alla versione ufficiale dell’uccisione di quattro bambini, e alla sparizione di una quinta, dei quali era stata incolpata una persona da lui ritenuta innocente. Ma il passato, che non passa mai completamente, ritorna con una lettera/testamento che lo trascina in un’indagine pericolosa, dagli esiti imprevedibili. Un’indagine che Briga non può non affrontare: lo deve a sé stesso, a Sabrina, a tutti gli innocenti che in tutti quegli anni hanno pagato senza colpa.
Così, passo dopo passo, siamo condotti in un folle volo che dal passato ci riporta al presente, dal Ventennio ai decenni a noi più vicini che, nel bene e più spesso nel male, hanno contribuito a edificare la nostra società e a creare le nostre (in)certezze.
Il lieto fine non è scontato ma i risultati dell’indagine, sebbene con un retrogusto amaro, convincono e appagano il lettore che si è lasciato condurre per mano e affascinare passo dopo passo.