In attesa di averlo graditissimo ospite al NebbiaGialla Suzzara Noir Festival, MilanoNera ha avuto la gradita opportunità di porre qualche domanda a Abir Mukherjee, autore del libro L’uomo di Calcutta, edito da SEM
L’uomo di Calcutta è anche la storia di un paese che sta prendendo coscienza di se stesso. Perché hai deciso di ambientare il romanzo nel 1919 tra la fine della prima guerra mondiale e l’inizio dei movimenti per l’indipendenza indiana?
Penso siano un tempo e un luogo affascinanti, unici sotto molti punti di vista e di cui non ci si è occupati molto specialmente per quanto riguarda il genere crime. Penso che quel momento storico abbia contribuito in maniera fondamentale alla formazione dell’India e dell’Inghilterra moderne, perché in quel periodo entrambi hanno mostrato il meglio e il peggio.
Ma sono anche anni che o vengono nascosti come la polvere sotto il tappeto o romanticamente idealizzati. Volevo raccontarli da un punto di vista intermedio e attraverso gli occhi di un uomo senza preconcetti.
Nel periodo in cui è ambientato il libro, Calcutta era ancora la città più importante dell’Asia ed era un luogo ricco di glamour e fascino come nessun altro al mondo. Allo stesso tempo però, era una città che stava subendo un enorme cambiamento ed era la culla dei movimenti indipendentisti, il focolaio dei tumulti contro il governo inglese.
È stato difficile ricreare l’atmosfera di quegli anni?
No, non tanto. Calcutta, sebbene abbia cambiato il suo nome in Kolkata, è per alcuni aspetti ancora molto simile ad allora. Penso che più di altri luoghi, sia stata modellata dal proprio passato.
È speciale perché è una città che fu fondata dagli inglesi e nel suo Dna coesistono l’anima inglese e quella indiana.
Ci sono ancora molti dei grandiosi edifici dell’epoca inglese, anche se molti di loro sono scoloriti o in rovina. Le sue strade e gli edifici sono ancora impregnati di storia e una volta lì è facilissimo immaginare quanto opulenta una parte della città fosse un centinaio di anni fa.
Però rimane un posto particolare, è difficile che piaccia al primo impatto, ma una volta che la conosci, è difficilissimo non innamorarsene. È una città in cui i tassisti ti citano Shakespeare giusto prima di fregarti chiedendoti cento rupie per un viaggio di quaranta, e dove un guidatore di risciò potrebbe canticchiare un motivo composto da un premio Nobel un secolo fa come se fosse una canzone di un recentissimo film di Bollywood.
L’India è un’ ambientazione unica e meravigliosa. Una terra di contrasti che credo potrebbe essere un’infinita fonte di ispirazione per uno scrittore. Sei d’accordo?
Decisamente!È un luogo smisurato, non solo in termini di dimensione o geografici, ma anche per quanto riguarda la vastità e la profondità dell’esperienza umana, della storia e della filosofia.
Può essere allo stesso tempo magica e miserabile, stimolante o deprimente. Amo il paese ma sono conscio dei suoi molteplici difetti.
Il Capitano Wyndham è un personaggio affascinate. Un brav’uomo che sta attraversando un brutto periodo, e che è al servizio di un sistema che non approva del tutto. .Le sue idee non rispecchiamo il pensiero corrente dell’epoca. Trovo sia un personaggio molto moderno. Gli hai dato un punto di vista indipendente, non inglese e non indiano, ho ragione?
Sì, hai perfettamente ragione. Sam è un veterano di guerra ed un ex detective di Scotland Yard. La vita l’ha reso cinico, porta internamente le ferite della guerra ed è tormentato dal senso di colpa tipico dei sopravvissuti. Arriva a Calcutta in cerca di una nuova vita lontano dall’Inghilterra.
Penso sia un outsider, qualcuno che non si sente a casa da nessuna parte, e penso che questo in parte sia dovuto al mio personale passato, essendo io figlio di immigrati indiani arrivati in Inghilterra.
Devo anche aggiungere che io sono un grande fan dei detective come Ian Rebus di Rankin, Bernie Gunther di Philip Kerr e Arkady Renko di Martin Cruz Smith e credo che gli investigatori debbano in qualche modo essere sempre un po’ dei pesci fuor d’acqua. Loro vedono le cose in modo diverso dagli altri.
I romanzi con il Capitano Wyndham sono diventati una serie ( in Inghilterra ne sono già stati pubblicati tre ndr.) era qualcosa che ti eri prefissato o è dovuto al successo del primo libro?
Ho sempre pensato che avrei scritto una serie, possibilmente ogni libro dovrebbe coprire ogni anno tra il 1919 e il 1947 l’anno dell’indipendenza. Certo, non so se sarò in grado di scriverne così tanti, ma la storia che voglio assolutamente raccontare è quella della carestia del Bengala del 1943, quando tra i due e i tre milioni di indiani morirono di fame a causa di una carestia causata dall’uomo e la cui colpa, sostengono molti, fu di Winston Churchill. Questo è un olocausto dimenticato e di cui gli occidentali sanno molto poco. Voglio dare una mano per fare in modo che se ne parli.
L’uomo di Calcutta è un libro di successo Cosa pensi abbia colpito di più i lettori? Leggi le recensioni?
Devo ammettere che leggo le recensioni e la stragrande maggioranza dei lettori è stata fantastica! Quello che mi ha sorpreso di più è quanto sia piaciuto il personaggio del sergente Surendranath Surrender-Not, l’assistente di Sam. Pare che la gente voglia sapere di più di lui e sono felice di dire che nei prossimi libri il suo personaggio crescerà e diventerà sempre più importante
Dove nasce il tuo interesse per la storia?
Da quando mi ricordo, sono sempre stato affascinato dalla storia, da tutta, dalla Bibbia in poi.
Mi piace esplorare le verità che ci sono state tramandate di generazione in generazione e mi interessano particolarmente i fatti e le teorie che sfidano il pensiero comune.
Credo questo possa in parte derivare dalla mia personale ricerca di una mia identità come britannico-indiano. Sentivo che la conoscenza e la comprensione del periodo di governo inglese dell’India erano fondamentali per capire meglio chi fossi io. Sfortunatamente, il periodo Raj non è molto insegnato nelle scuole inglese, o almeno non lo era quando le ho frequentate io.
Infatti, ho imparato molto di più sulla storia tedesca o italiana dei primi decenni del ‘900 di quanto sappia della storia inglese dello stesso periodo. L’urgenza di scrivere questo libro è nata dal desiderio di raccontare una storia ambientata in un periodo a cui ritenevo che né le fonti inglesi né quelle indiane avessero dato la giusta importanza.
Pensi che i romanzi storici possano essere un efficace metodo di insegnamento?
Sì. Una buona storia può far rivivere la Storia e raggiungere lettori che magari non hanno mai preso in mano un libro che non fosse un romanzo o che parlasse di un periodo storico o di un particolare evento.
Sembriamo non imparare dal nostro passato. Razzismo, democrazia imposta, sfruttamento, emarginazione, il credere di essere moralmente superiori a altre popolazioni…queste sono tutte cose di cui parli nel libro.
Questo è un punto importante. Sembra proprio che le nostre società abbiano dimenticato molte delle lezioni che abbiamo imparato dolorosamente nel secolo scorso. La crescita della paura, e del populismo nel mondo occidentale sono fenomeni preoccupanti e pensano siano in parte causati da un senso di impotenza. Negli ultimi dieci anni abbiamo vissuto nella paura del crollo dell’economia mondiale. Da allora, la maggior parte della gente nella maggioranza dei nostri paese ha dovuto lottare per farcela, mentre un ristretto gruppo di ricchi ha ammassato ancora più fortune.
Invece di renderci conto che il problema sta nel nostro sistema di capitalismo globale, credo che la gente stia facendo quello che è sempre stato fatto nei momenti di crisi, cioè trovare un capro espiatorio, migranti, stranieri, mussulmani, quando invece la causa è molto più vicina a casa nostra.
Dopo tutto è più facile dare la colpa ai poveri e ai deboli invece che chiedere conto ai ricchi e ai potenti.
Oggi, cosa è rimasto in India di quel periodo? Sia di positivo che di negativo…
C’è ancora molto. Tra le cose positive, l’eredità di una democrazia parlamentare. Un’ elezione indiana è il più vasto processo democratico al mondo, con un miliardo di persone che esercitano il loro diritto al voto.
Tra le cose negative, le fondamenta del sistema legale e burocratico. Molte leggi arcaiche lasciate dagli inglesi, come quella che proibisce l’omosessualità , sono ancora in vigore, anche se devo dire che non possiamo incolpare gli inglesi di questo. Queste leggi avrebbero dovuto essere abrogate nel corso dei settanta anni di indipendenza…
Una cosa che sono felice sia finalmente cambiata è la mentalità da “colonizzati”. Durante i primi cinquanta anni d’indipendenza, credo molti indiani sentissero ancora un certo senso di inferiorità nei confronti del resto del mondo. Si manifestava in molti modi, per esempio anche con un’economia chiusa. Dal 1990 però le cose sono cambiate e gli indiani, specialmente le generazioni più giovani, sanno di non essere inferiori a nessuno e di poter competere al top con il resto del mondo.
Sei cresciuto in Scozia, come ti senti quando torni in India? Ho letto che non parli indiano, quindi anche tu avresti difficoltà a pronunciare il nome di Surendranath Surrender-Not..
Adoro andare in India. È un posto speciale per me: il luogo dei miei avi e dove si trovano le mie radici culturali. Per quando riguarda la lingua, è vero che non parlo Hindi, che è considerata la lingua principale in India, ma parlo il Bengali, la lingua di Calcutta e del Bengala, la seconda più parlata in India, quindi no, non è un problema per me il nome di Surrender-Not.
L’uomo di Calcutta è un affascinante giallo storico con anche tanto humour. Che ruolo ha l’ironia in un giallo?
Credo ci sia un curioso collegamento tra lo humour e le avversità . La gente più povera, la classe lavoratrice di città problematiche spesso sviluppa una meravigliosa ironia, un fantastico humour nero per affrontare meglio le difficoltà della vita. Glasgow, la città in cui sono cresciuto, ce l’ha. E anche Calcutta. Questo tipo di humour era tipico dei paesi comunisti durante la Guerra Fredda e sono certo che ci siano anche in Italia alcune zone che hanno sviluppato questo tipo di umorismo. La gente di questi luoghi ha una naturale inclinazione a vedere il mondo con occhi ironici, perché un umorismo così amaro e caustico è il prodotto delle difficoltà . Penso quindi si adatti perfettamente a un libro giallo o noir che parla dei lati più oscuri delle cose, di dolore e morte. E ci aiuta a sopportare anche i periodi più neri.
Tanto per divertirci un po’: cosa ti piace e cosa non ti piace della Scozia e dell’India?
Da dove comincio?
Cosa mi piace dell’India? Il cibo, il clima, la storia, la cultura e gli elefanti!
Cosa non mi piace? Le zanzare e l’intolleranza. Soprattutto le zanzare intolleranti.
Cosa mi piace della Scozia? Il calore della gente, le bellezze naturali, l’haggis ( piatto tipico scozzese ndr.), il whisky e il fatto che non sia Inghilterra!
Cosa non mi piace: la pioggia, il vento, la neve, il nevischio, la grandine, le tormente, il cibo ( anche se il gelato è buono, soprattutto perché ogni città ha una gelateria fondata da una famiglia emigrata dall’Italia) , il fatto che la nostra nazionale di calcio sembri avere dimenticato come si fa a qualificarsi ai campionati mondiali ( come un’altra squadra che gioca con una maglia azzurra…) e….ho già parlato del tempo?
MilanoNera ringrazia Abir Mukherjee e la SEM per la disponibilità .
L’appuntamento con Abir Mukherjee e L’uomo di Calcutta è al NebbiaGialla Suzzara Noir Festival – 1/3 febbraio 2019, Suzzara (Mn)
Qui la nostra recensione a L’uomo di Calcutta
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