Matteo Ferrario, nato nel Milanese, quarantenne, è architetto e giornalista; collabora con riviste di costruzioni ed edilizia sostenibile. Ha scritto racconti per varie antologie ed ora, dopo “Buia”, ha pubblicato, sempre per Fernandel, il suo secondo romanzo, “Il mostro dell’hinterland”, storia di un duplice omicidio narrata in prima persona dal “colpevole”.
Matteo, abbiamo detto che sei un architetto. Come è nata in te la passione per la scrittura, peraltro per un genere così particolare come il noir, apparentemente lontano dal campo dei tuoi studi e della tua professione?
Un rapporto quotidiano con la scrittura c’è sempre stato, ma solo dopo essere diventato un lettore forte di narrativa, nei primi anni universitari, ho iniziato a scrivere racconti. Ho scoperto l’amore per la letteratura nel momento in cui altri lo ridimensionano o l’abbandonano del tutto, magari con l’alibi degli impegni per gli esami, della preferenza per i saggi e la loro maggiore utilità. A me è successo il contrario, forse anche perché nella facoltà di architettura non avevo trovato quello che mi aspettavo, o in cui speravo. Non credo però di essere uno che legge e scrive dei noir nel vero senso della parola, o per lo meno non in modo esclusivo. Sono convinto, questo sì, che un autore debba attingere ai generi ogni volta che la storia che sta scrivendo lo richiede. Per me noir è un certo modo di guardare alla realtà: è la storia raccontata dal punto di vista del cattivo, o di chi non è affatto convinto di essere una brava persona.
Passando al tuo nuovo romanzo, “Il mostro dell’hinterland”, come hai maturato l’idea di metterti nei panni di un assassino e di dare voce ai suoi sentimenti e ai suoi ricordi…?
Per quanto possa suonare provocatorio, visto che parliamo di un uomo condannato per un doppio omicidio, la scelta di raccontare la storia dal suo punto di vista mi è sempre sembrata la più naturale, perché ci sono aspetti di Riccardo, il mio protagonista, che me lo fanno sentire piuttosto vicino. Come lui sono uno che, per indole, non sta poi così male da solo, anche se non faccio una vita isolata come la sua e, oltre che della solitudine, ho bisogno degli altri, più o meno in egual misura.
Nella premessa al tuo romanzo, specifichi che ti sei liberamente ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto, peraltro facilmente individuabile. Cosa ti ha spinto a scegliere di scrivere di questo specifico delitto?
Il mio romanzo è liberamente ispirato a un fatto di cronaca risalente a una decina d’anni fa, ma, tengo a sottolinearlo, non è un libro di inchiesta che si propone di far luce su un caso già chiuso o specularci sopra. Si tratta di una storia di finzione, e come tale va letto. La verità sui miei personaggi non coincide in alcun modo con quella sulle persone coinvolte nei fatti reali, ma piuttosto prende spunto dai suoi risvolti mediatici e dalle tracce che hanno lasciato in me.
Della vicenda di cronaca mi interessavano soprattutto il quadro sociale e familiare, che all’epoca mi aveva colpito per le analogie col contesto in cui sono cresciuto – cioè quello dell’hinterland milanese, dove ho ambientato la mia storia – e il clima mediatico attorno al processo. Su questi aspetti mi sono tenuto volutamente vicino al fatto vero, perché li ritenevo emblematici, a cominciare dal contrasto fra la vita da fantasma del giovane imputato e la frenesia sessuale delle due anziane vittime. Per il resto si tratta di pura fiction, e questo vale a maggior ragione per la voce narrante di Riccardo, che è per me l’elemento portante principale del romanzo: non so se il tono caustico e lo sguardo sulla realtà del mostro dell’hinterland appartengano a qualche condannato reale, perché li ho sentiti nascere più dall’interno, come reazione a una vicenda da cui mi sentivo in qualche modo coinvolto.
Molto spesso gli scrittori di thriller e noir creano storie totalmente inventate, senza agganci con fatti reali… Vuoi raccontarci come, invece, ti sei dovuto preparare tu per scrivere “Il mostro dell’hinterland” ed “immedesimarti” nel personaggio?
Magari non è un modo di procedere che si sceglie spesso, ma non mancano precedenti anche molto riusciti, sia nella letteratura che nel cinema: anni fa avevo letto un bel romanzo di Joyce Carol Oates, Occhi di tempesta, che lasciava intravedere in filigrana il caso O. J. Simpson. In un racconto di un’altra scrittrice americana, A. M. Homes, mi ero imbattuto in due personaggi che da un lato potevano sembrare un Ronald Reagan ormai in Alzheimer avanzato e sua moglie, ritratti nella loro routine quotidiana, ma dall’altro erano il frutto della fantasia di chi scriveva. Anche Il vedovo di Dino Risi prende spunto da una vicenda reale per costruire una storia del tutto indipendente. Mi piace che un autore si prenda questo tipo di libertà, soprattutto quando mi accorgo che il suo obiettivo non è fare del sensazionalismo o cavalcare il caso celebre, ma scrivere del proprio tempo e della società in cui vive.
Nel mio caso, ho fatto un po’ di ricerche per la parte processuale, ma per il resto il metodo di lavoro è stato molto simile a quello del primo romanzo. Diciamo che in questo ho utilizzato gli aspetti pubblici di un processo, gli unici di cui ero a conoscenza, come di solito utilizzo tutti gli altri materiali a disposizione: il mio sguardo sulla realtà che mi circonda, le mie paure, fatti che hanno riguardato persone a me vicine, o che mi sono stati riportati, o che ho soltanto immaginato.
“Il mostro dell’hinterland”, per come la vedo io, è soprattutto un romanzo che parla di famiglia, individualismo e del potere manipolatorio dei media.
Durante la lettura del tuo libro, ho iniziato a provare un’inaspettata, crescente simpatia per il protagonista, fino ad arrivare a dubitare della sua reale colpevolezza. Era effettivamente questo il tuo obiettivo?
Mi fa molto piacere questa osservazione, perché sono uno che da lettore apprezza una storia anche nella misura in cui riesce ad affezionarsi ai suoi personaggi principali. Di sicuro il mio obiettivo era ricercare una qualche forma di empatia tra la voce narrante e il lettore, offrendo a quest’ultimo tutti gli elementi necessari per stabilire chi e cosa è più mostruoso in una società che ci vuole affascinanti, entusiasti, acritici e sessualmente attivi fino al momento di tirare le cuoia. Sotto questo punto di vista, più che dalla cronaca degli ultimi anni, Riccardo Berio nasce dalla parte di me che vuole essere lasciata in pace, che alle offerte commerciali dei call center risponde nel modo meno sgarbato possibile: “no, grazie, non sono interessato a nessuna proposta”.
In letteratura non mancano esempi anche recenti di protagonisti controversi in grado di risultare simpatici, addirittura seducenti, ma di solito questo effetto viene raggiunto grazie a un misto di amoralità e riuscita sociale, che anche nella vita di tutti i giorni esercita una forte attrattiva su molte persone.
Riccardo su un terreno simile parte svantaggiato, perché la sua colpa principale agli occhi della società non è, a mio avviso, quella legata al duplice omicidio degli zii, ma quella di aver abbandonato il campo, di non voler partecipare, di non avere affetti o scopi di vita che lo facciano apparire umano. Quella di avvicinare il lettore a un personaggio così estremo era forse la sfida principale a livello di scrittura: come fare in modo che una persona mediamente integrata nella società si calasse nel punto di vista di uno che a quarant’anni non lavora, non ha amici, non ha donne e non è ancora riuscito nemmeno a finire gli studi?
Ma anche riguardo a questi aspetti Riccardo ha da raccontarci una verità che è molto diversa da quella dei media e dei pubblici ministeri, e che a poco a poco emerge nel corso del romanzo. Il mio personaggio è, in realtà, molto più vitale di quelli che lo circondano, e per questo, a prescindere da quanta distanza ci sia fra la sua versione dei fatti e quella del giudice che lo ha condannato, risulta simpatico anche a me.
E forse c’è anche un altro risvolto, quello umoristico, che ho visto emergere pagina dopo pagina nel corso della stesura finale: “Il mostro dell’hinterland” può essere letto anche come un one man show, come il monologo di uno sconfitto che invece di compiangersi trasforma la propria storia in una serie di sketch tra il comico e il tragico.
Che effetto pensi possa suscitare sui lettori il fatto di aver dato la parola a quello che viene comunemente considerato un “mostro”, permettendogli di esprimere in modo privilegiato il suo punto di vista?
In realtà non lo so, e sono molto curioso di scoprirlo. Questa è una storia che mi sono portato appresso per un po’ prima di scriverla, e una delle ragioni stava proprio nella sgradevolezza della vicenda e del suo protagonista. Al tempo stesso, la voce narrante del romanzo, il senso di liberazione che lascia trasparire, è qualcosa di cui sono profondamente convinto e che sono deciso a difendere anche nelle presentazioni, dedicando più spazio alla lettura di estratti dal romanzo rispetto a quanto non abbia fatto col precedente. Non so quali e quante saranno le reazioni, ma non escludo che in giro ci siano altri che, come me, non stanno sempre dalla parte del personaggio più popolare, e si sono stancati di vedere imputati di casi celebri processati nei talk show televisivi ancora prima che in aula: in questo caso, il punto di vista del presunto mostro potrebbe interessarli.
Nel tuo primo romanzo, “Buia”, racconti della storia tra Buia ed un suo timido coetaneo, due ragazzi provenienti da diversi background… Si può intravedere un parallelo con la storia tra Riccardo e Mara del “Mostro dell’hinterland”?
Assolutamente sì. Ringrazio per la domanda, che mi permette anche di sottolineare come le ossessioni personali, in letteratura, abbiano un peso superiore a tutto il resto, anche rispetto alla cronaca e ad altri elementi. Il narratore di Buia e Riccardo Berio sono entrambi riconducibili a un certo tipo maschile di cui finisco spesso per occuparmi nelle mie storie, e lo stesso vale al femminile per Buia e Mara. Ma in questo caso può risultare difficile trovare altre analogie fra i due romanzi, che in generale sono progetti molto differenti: uno è un romanzo più intimo, l’altro è più politico. Ciascuno a proprio modo, contengono entrambi una storia d’amore, ma con sviluppi diversi.
Il tuo romanzo, oltre che per l’argomento, si legge tutto d’un fiato anche per lo stile accattivante e moderno con cui lo hai scritto. Questa tua “facilità di penna” ti è connaturata o ci hai lavorato sopra?
Ci ho senz’altro lavorato, ma sono convinto che la fluidità di scrittura dipenda anche dalla continuità e da quanto tempo intercorre fra l’inizio e la fine di una stesura. Sono stato per anni un accanito sostenitore dell’importanza di stare a lungo su un testo, prendendosi tutto il tempo necessario per revisionarlo, poi ho capito che forse non era questo il modo migliore di lavorare, almeno per me.
Io ero e rimango anche adesso uno che riscrive parecchio, ma quello che occorre per rendere i personaggi vivi e veri deve essere contenuto già nella prima stesura, o non ci sarà mai. Quando si tratta di racconti è più evidente: i più validi si scrivono in una, due o al massimo tre sedute. Poi si può lavorare di lima, migliorare tutto, ma non si trova mai quello che non c’era da subito. Il romanzo richiede un lavoro meno concentrato, è fatto anche di fasi successive e interruzioni. Ma anche qui: ogni romanzo ha la sua voce, e quando la si trova lo si comprende dal fatto che la scrittura fluisce naturale, come se da qualche parte esistesse già la storia e si trattasse solo di farle spazio sulla pagina.
“Il mostro dell’hinterland” ha avuto due stesure. Nella prima, che si è svolta nell’arco di otto-nove mesi, ha preso forma il romanzo, ma il punto di vista non mi convinceva. La seconda, quella definitiva, è durata tre mesi ed è stata molto continua, senza intoppi, perché ormai avevo trovato la voce di Riccardo Berio.
Se il risultato è un libro che si legge tutto d’un fiato ne sono felice, perché il primo compito di uno scrittore è quello di convincere chi legge a non abbandonare dopo dieci pagine, tenerlo dentro la storia sino alla fine, in modo da fare in tempo a raccontargli le cose che gli stanno più a cuore. La capacità di intrattenimento non è l’unica richiesta a chi scrive storie, ma di sicuro è quella di base, anche se molti addetti ai lavori spesso lo dimenticano o mostrano un certo snobismo al riguardo.
Tornando a Matteo Ferrario, come riesci a conciliare le tue due professioni – architetto e scrittore – così differenti tra loro?
A dire il vero, rispetto a qualche anno fa, la differenza si è assottigliata, perché oggi mi occupo prevalentemente di giornalismo di architettura e traduzioni tecniche, quindi alla fine la maggior parte del lavoro che faccio è sul testo. Si tratta di attività piuttosto simili tra loro, anche se la scrittura narrativa segue altre strade rispetto a quella giornalistica. Quando facevo progettazione a tempo pieno era più difficile fare programmi di un certo respiro sulla scrittura, e questo è anche uno dei motivi per cui fino all’anno scorso ho pubblicato solo singoli racconti su antologie collettive. Oggi la mia vita è organizzata in modo diverso: lavoro per conto mio, in un piccolo studio casalingo sopra a dove abito con mia moglie, e tranne in alcuni casi, come viaggi stampa o visite a cantieri, posso gestirmi con una certa facilità e senza troppe distrazioni. All’inizio di quest’anno sono tornato a fare per un paio di mesi il vecchio lavoro di progettista e, se da un lato è stato bello tornare a fare gioco di squadra in uno studio di architettura, devo dire che dall’altro non riprenderei mai quel tipo di impegno a tempo pieno, perché mi costringerebbe a ridimensionare quello con la scrittura, e non ne ho alcuna intenzione.
Conosciamo ormai bene il genere di cui preferisci scrivere…ma cosa ci dici per quanto riguarda le tue letture?
Sono un lettore di narrativa non di genere, soprattutto americana ma anche francese e italiana, con qualche incursione nel noir. Ultimamente mi capita più di interessarmi alle singole opere che all’intera carriera di un autore, ed è sempre bello fare delle nuove scoperte. Ma i miei scrittori preferiti rimangono quelli di cui ho letto praticamente ogni cosa: Fitzgerald su tutti, forse l’unico di cui, per dirla come Holden Caulfield, mi sarebbe piaciuto avere il numero di telefono per chiamarlo a lettura finita. È un tipo di affetto e vicinanza che ho provato con la maggior parte dei suoi libri, compresi quelli di racconti, ma soprattutto con Il grande Gatsby, che per me resta il più grande romanzo americano del Novecento. Poi Richard Yates, che è stato in grado di far confluire la lezione di Hemingway e quella dello stesso Fitzgerald in un solo progetto letterario, dando vita a capolavori come Revolutionary Road e Undici solitudini, ma anche aprendo una strada importante per molti scrittori delle generazioni successive, negli Stati Uniti e non solo. Tra i contemporanei, amo in modo particolare Michel Houellebecq e Bret Easton Ellis, anche se forse hanno già espresso entrambi la parte migliore del proprio talento e stanno un po’ vivendo di rendita.
Ora dovrai affrontare la promozione del tuo nuovo romanzo, ma hai già in mente qualche altro progetto letterario?
Uno a dire il vero sarebbe già pronto, ed è un libro di racconti che può essere visto come una galleria di ritratti di altrettante donne. Al pari di quanto succede nel primo romanzo, Buia, il punto di vista da cui viene descritta ciascuna di loro è quello di un uomo che l’amava e l’ha persa. Ma non ho ancora pensato di proporlo a nessuno, perché la reazione di editori o agenti appena sentono la parola “racconto” non è il miglior incentivo. Se si creerà l’occasione per pubblicarli come raccolta, senza tentare di spacciarli per un romanzo a episodi o altro, ne sarò ben felice. Altrimenti li proporrò singolarmente a qualche rivista o li lascerò dove sono, senza alcun problema, anche perché c’è un nuovo romanzo in corso.
È ancora in una fase iniziale, ma credo ci siano già i presupposti per lavorarci con continuità e portarlo a termine, non appena sarà finita la promozione de Il mostro dell’hinterland. Sarà un terzo esperimento sulla voce narrante in prima persona, dopo quello di Buia, che era raccontato da un punto di vista laterale ma allo stesso tempo molto coinvolto, interno all’azione in alcune parti ed equiparabile a una terza persona in altre, e quello sull’io narrante di Riccardo nel nuovo romanzo, che è una prima persona meno americana e più europea, in qualche modo riconducibile alla figura novecentesca dell’inetto a vivere. Il personaggio stesso è un degno figlio del Vecchio Continente, che vive di quanto accumulato dalle generazioni passate senza porsi nuovi scopi.
La voce del prossimo romanzo sarà diversa da entrambe le precedenti. Sarà quella del protagonista del libro, che si rivolge direttamente alla propria compagna, in una sorta di confessione. Anche stavolta si tratterà di un punto di vista controverso, perché da un lato è quello di un uomo che cerca di essere un buon padre, ma dall’altro è quello di un assassino. È una storia che in una certa misura mi spaventa, ma credo che questo sia un ulteriore motivo per scriverla.