La terra di provenienza non è poi così lontana e quel clima di superstizione, di fascino, di occulte manovre da parte di mmacare è particolarmente familiare per chi scrive.
Le pagine dell’Autore sono sporche di quella terra di dove finisce la terra, secca e arida, alla quale ci ha abituato sin dai tempi dei primi lavori di ISBN.
Ma questa volta non ci sono rombi di motori a segnare l’arrivo di qualche mmalacarne armato, tutt’altro.
C’è il silenzio della campagna tarantina del 1799, con i suoi fruscii tra le foglie, i frinii e i gracidii interrotti repentinamente dal sentore di qualcosa che si muove nell’ombra dei boschi, tra il timoroso baluginare dei raggi della luna.
L’Illuminismo ed il suo granitico raziocinio si vede costretto a lasciare il passo alla superstizione, alla scaramantica credenza, attestando il proprio fallimento.
La Libertà, l’Uguaglianza, la Fratellanza, gli ideali di uomini liberi e di buoni costumi, postisi sul marmoreo piedistallo del senno, crollano miseramente dinanzi al ritorno al medioevo del fascino e dei sortilegi di un sud accerchiato dalle proprie credenze tanto quanto il villaggio di Shyamalan.
E Omar Di Monopoli riesce in questa sua operazione grazie ad un registro linguistico che rende come pochi altri Autori la crudezza di quel che si para dinanzi agli occhi del lettore allorquando miriadi di mosche si arrampicavano sui crani scorticati delle sorelle, e camminavano sui loro bulbi oculari rinsecchiti in un irrispettoso, rivoltante andirivieni.
Questo ritorno al passato, però, non muta l’humus narrativo dell’Autore, che attinge ad un meridione sempre fermo e invischiato nella credenza, sebbene con abiti differenti e meno moderni rispetto ai suoi precedenti lavori.
Come non ritrovare quel medesimo clima tra le pagine di Nella perfida terra di Dio, fatto di timori e paure irrazionali infiammate da cialtroni autoproclamatisi santoni?
Di Monopoli ci restituisce un sud, ieri come oggi, imbibito di credenze che travalicano il razionale, lo sospingono verso un burrone e lo calciano giù.
Ma questa non è la milleriana Sparta, è piuttosto un universo narrativo ormai consolidato e coerente nel suo presente e nel suo passato, in cui la violenza dell’oscurità trasfigura la luce narrativa che l’Autore dispensa con attenta parsimonia.
Feltrinelli propone sullo scaffale un eccellente prodotto “fisico”, che non può prescindere dalle vibrazioni metalliche di The call od Khtulu, tra i solchi di Ride the lightning.