“Il romanziere indaga sulla natura umana. Cerco l’uomo e trovo me.” Intervista a Raul Montanari – Il disegno magico


Il disegno magico, Baldini+ Castoldi,  è un libro pieno di amore, odio, rancore e desiderio di vendetta.
Gennaio 2022. Angelo trentanovenne in isolamento per covid nell’arco di una giornata condividerà con Francesca, una ragazza che si è da poco trasferita nella stessa palazzina la sua storia, con una Milano ancora semideserta e timorosa del contagio a fare da spettatrice fuori dalla finestra.
La vera ambientazione del libro è, infatti, l’animo umano con i suoi sentimenti e con le sue infinite sfaccettature.
Una narrazione che parte da lontano, dall’adolescenza di Angelo, segnata da un fatto grave, e che ci porta al presente in un crescendo di rivelazioni e tensione, alternando momenti da vero noir, a momenti leggeri, da commedia. Montanari è come sempre molto abile nell’inserire nella narrazione spunti per riflessioni, pungolando il lettore a mettersi nei panni dei protagonisti , a porsi le loro stesse domande.
Riflessioni e domande che ho colto e girato a Raul Montanari, che ha cortesemente accettato di rispondere.


Il disegno magico ha un impianto narrativo particolare: due persone chiuse in una stanza e come nucleo il racconto di una storia. Come ti è venuta questa idea, con una protagonista che parla in prima persona mentre la trama principale è tutta narrata dal secondo protagonista?
Perché mi interessava immedesimarmi in uno sguardo femminile che tenesse le fila di tutto il romanzo, ma d’altra parte la vicenda che volevo raccontare la sentivo molto maschile. Il disegno magico è il rovescio di un romanzo pubblicato nel 2008 con notevole successo, La prima notte. Anche in quel caso una donna e un uomo passano una notte insieme a parlare, ma il punto di vista è quello del maschio mentre a raccontare le avventure è la donna.  C’è da dire che, pur non essendo gay, io penso di avere una componente femminile fortissima. Sai che tutti siamo maschi e femmine contemporaneamente, in percentuali variabili; io penso di essere molto vicino al 50/50, almeno in certe cose.

Quale è stata la molla che ha fatto nascere questo libro? Un libro pieno di odio e di amore…
Mi sono accorto che, stranamente, non avevo mai raccontato una storia il cui motore narrativo fondamentale fosse la vendetta, e qui l’ho fatto. Ma oltre a questo volevo anche affrontare in modo originale il tema del covid, del lockdown, che fa da cornice alla vicenda narrata da Angelo. Cosa si fa, fin da bambini, quando non si può uscire di casa? Si raccontano delle storie. Succede nel Decameron, ma anche Sheherazade, nelle Mille e una notte, racconta storie al suo marito-padrone, chiusa nell’harem. In fondo, se ci pensi, uno scrittore si crea una sua clausura fittizia, non imposta ma scelta, per lavorare alle sue storie. Stephen King dice che si scrive con la porta chiusa, ed è vero.

Il disegno magico è un test proiettivo della personalità, ma non credi che tutti più o meno facciamo qualcosa del genere, a pelle, quando conosciamo qualcuno? Una specie di istinto primordiale e animale che ci dà sensazioni su chi abbiamo di fronte solo osservandolo?
Ma certo! Io credo molto nella forza della prima impressione, perché in quel momento cogliamo l’essenza della persona che abbiamo davanti, bypassando la razionalità e usando appunto l’istinto. Il disegno magico è semplicemente un catalizzatore, molto efficace te lo assicuro, perché anzitutto guardiamo una persona mentre lo fa e notiamo le esitazioni, le amnesie, le scelte e i pentimenti, e questo già ci dice moltissimo; poi ci sono i simboli che rimangono sulla carta quando il disegno è compiuto, e possiamo interpretarli abbastanza facilmente una volta capito il meccanismo. Come succede ad Angelo nel romanzo, anche a me è stato insegnato quando ero ragazzo e ti garantisco che ero diventato bravissimo! Lo facevo fare a perfetti sconosciuti e indovinavo su di loro moltissime cose, era raro che mi sbagliassi.

Anche un libro è una specie test proiettivo della personalità dell’autore?
Oh, sì. Più di quanto vorremmo. Alla fine si parla solo di sé stessi, anche quando si è onestamente convinti di parlare di qualcun altro.

Dici che la gente ha una gran voglia di magia, di evadere. Anche la scrittura in fondo è una magia, un’evasione dalla propria vita. Lo è più per l’autore o per il lettore?
Aspetta: quello che chiamiamo pensiero magico, di cui il disegno che dà il titolo al libro è una delle tante manifestazioni, non è evasione nel senso di distrazione. È piuttosto ammettere l’enorme peso che nella nostra vita ha l’elemento irrazionale. Noi ragioniamo sulle decisioni che dobbiamo prendere, cerchiamo di fare scelte calcolate che vadano a nostro vantaggio, ma spessissimo finiamo per agire d’impulso, seguendo spinte profonde che di razionale non hanno niente. Pensa al peso che ha l’irrazionale su un sentimento fondamentale come l’amore: nessuno si è mai innamorato perché ha calcolato a mente fredda che quella persona era perfetta per lui. Anzi, spesso ci innamoriamo di una persona che, ragionando, ci sembra “sbagliata”, e questo vale in ogni campo della vita.

Il protagonista si chiama Angelo, presumo non sia un nome scelto a caso…
È il mio secondo nome. Raul è un antico nome germanico, parente di Rudolf, e significa “lupo selvaggio”. Come vedi i miei due nomi formano un ossimoro, sono nettamente contrapposti, come per ricordarmi sempre la natura doppia della mia personalità. Nel caso del protagonista del libro, Angelo merita di chiamarsi così per la bellezza fisica – un elemento che non è mai secondario nelle nostre vite – e per una sua certa innocenza e semplicità di base. La donna che fa da coprotagonista, Francesca, ha una personalità molto più complessa.

La vendetta, perché siamo così istintivamente portati a cercarla, secondo te? Fa parte della natura umana?
Vivere è subire torti: ce li infliggono i nostri genitori – spesso con le migliori intenzioni – e continuiamo a subirli per tutta la vita, reali o immaginari che siano. Ora, un torto crea uno squilibrio che esige una compensazione. Mi rubano la bicicletta? Anzitutto la cerco, magari posso ritrovarla. Se invece scopro che me l’hanno bruciata, ho tre possibilità: esigo un risarcimento (me la devi pagare, oppure mi dai la tua); ti perdono e lascio perdere (scelta consigliata dagli psicologi, perché chi perdona si mette su un piano superiore a chi gli ha fatto torto); mi vendico e ti prendo a cazzotti oppure brucio la tua, di bici. Dal punto di vista narrativo è chiaro che la vendetta è il comportamento più interessante da raccontare, ed è un tema antichissimo. Achille si ritira dalla guerra per vendicarsi del torto che ha subito da Agamennone, ma torna a combattere per vendicare la morte di Patroclo. Il testo teatrale più famoso di tutti i tempi, l’Amleto, non è forse un dramma di vendetta?

Hai spesso lo sguardo rivolto al passato, qui si parla di rimpianti, rimorsi, di sliding doors che cambiamo il corso dell’esistenza.  Ha senso ripensare e rimuginare sul passato?
C’è sicuramente un tratto caratteriale, perché già nei miei diari di quando ero adolescente trovo questo sguardo rivolto all’indietro, in un’età in cui sarebbe normale guardare solo avanti. D’altronde noi siamo fatti del nostro passato. Il passato è quella parte del presente che ha meritato di rimanere dentro di noi, a volte per motivi evidenti (perché si trattava di momenti bellissimi o al contrario traumatici), altre volte per vie misteriose. Una parola che non significava niente e che ti è rimasta in mente per sempre, un paesaggio, un volto qualsiasi di una persona qualsiasi… chissà perché loro sono stati scelti per restare? Eppure è così.

Ci sono state nella tua vita più fortunate sliding doors o roads non taken
Mi sono trovato a molti bivi, ma è difficile valutare quante volte ho preso la strada giusta o invece quella sbagliata. Penso che abbiamo tutti una percezione alterata del bilancio fra fortuna e sfortuna, nella nostra vita. Le cose belle che ci sono successe le attribuiamo ai nostri meriti, quelle brutte sono sempre botte di sfiga o, appunto, torti altrui. Nell’insieme credo che fortuna e sfortuna si compensino.

La scuola, l’adolescenza tornano spesso nei tuoi libri. Nel precedente il protagonista voleva rifare le elementari e anche in questo vi sono molti riferimenti a maestri e insegnanti. Quanto sono stati importanti quegli anni per te?
Enormemente. Borges dice che c’è un momento, nella vita di tutti noi, in cui incontriamo noi stessi una volta per tutte, in cui capiamo chi siamo, cosa desideriamo, di cosa abbiamo paura. Quel momento cade di sicuro negli anni di cui stiamo parlando, direi fra i dieci e i quindici o sedici, non oltre. Sempre a proposito di sliding doors: in quinta elementare dovetti cambiare scuola e il primo giorno mi ritrovai in classe con una maestra severissima, diciamo pure antipatica, una persona che doveva avere dei problemi per essere così aggressiva. Ero disperato. Dopo mezz’ora entra il bidello, mi chiama e mi porta in un’altra aula: c’era stato un errore. Mi trovo davanti un maestro meraviglioso, intelligente, sensibile, un uomo dolcissimo che fu poi il primo a convincermi che valevo qualcosa. Se non è fortuna questa…

In un passaggio dici: “alla fine non siamo mai usciti da quella classe, non ci siamo mai alzati da quei banchi, la vita è un’aula di scuola con i maestri che danno voti…”
Quanto temi ancora oggi i voti, se li temi?

Per fortuna non ho mai temuto i voti, a scuola andavo bene. Era l’unico posto in cui andavo bene, perché per il resto in famiglia avevo molti problemi, a calcio giocavo malissimo, con le ragazze ero una frana (specialmente prima di imparare il disegno magico, mezzo infallibile per attaccare bottone e farmi passare per un tipo interessante!). I voti della vita fanno sicuramente più paura.

Parlando di psicologia il protagonista dice: “…quello che mi attirava era penetrare dentro un’anima, scoprire i meccanismi nascosti che regolano i comportamenti della persona. Quanto scrittura e psicologia hanno in comune? E scrivere assomiglia più a una seduta di analisi o di autoanalisi?
Il romanziere ha in comune con lo psicologo, ma anche col sociologo, un’indagine sulla natura umana. In un certo senso è sempre come tendere una rete e cercare di catturare l’Uomo, o i frammenti che compongono ciò che chiamiamo Uomo (o società, o vita). Però, a guardarle bene, la rete dello psicologo e quella del romanziere sono diversissime: la prima ha delle maglie regolari, quadrate, mentre quella del romanziere è molto strana, le maglie sono triangoli scaleni, trapezi con i lati diseguali, cerchi, e poi in certi punti sono fittissime mentre in altri sono fin troppo larghe… il risultato è che il romanziere intercetta con la sua rete pezzetti di realtà che sfuggono a chi studia l’uomo con mezzi scientifici. Uno psicologo che scriva un libro sul sentimento della gelosia non arriverà mai a cogliere certe verità che rimangono invece impigliate nella rete dello scrittore. Infatti se leggi i grandi psicologi, a partire da Freud, vedi che citano spessissimo le intuizioni della letteratura: non solo romanzo ma anche poesia e teatro. Se è vero quello che ho risposto sopra, che in fondo parliamo sempre di noi stessi, è chiaro che analisi e autoanalisi coincidono. Cerco l’Uomo e trovo me; cerco me e trovo l’Uomo, tutti gli uomini… se sono abbastanza bravo.

Il protagonista tiene dei diari che brucia ogni Capodanno. Tenere un diario e scrivere un libro hanno qualcosa in comune? E si è più sinceri nel diario scrivendo a se stessi o mettendo in bocca parole e sensazioni al protagonista di un libro?
È difficile rispondere perché non solo ci sono tanti modi per scrivere libri, ma anche per tenere diari. I miei diari, per esempio, somigliano ai libri mastri delle navi o alle scatole nere degli aerei: mi limito a registrare i fatti che accadono giorno dopo giorno in quella grande navigazione che è la vita, con pochi commenti. Forse le cose più vere su me stesso le dico nei libri, ma questo dipende molto dal temperamento dello scrittore. Durante un’intervista Tiziano Scarpa, uno dei pochissimi veri amici che ho nel mondo letterario, ha detto che a quattordici o quindici anni aveva fatto questa scoperta: che nei libri c’è la verità. I suoi genitori non gli raccontavano il mondo e la vita così come sono realmente, tantomeno lo faceva la televisione, i Caroselli pubblicitari… i libri, quelli giusti, sì.

Sempre riprendendo frasi del libro, chi hai ammirato nella tua vita e chi ammiri oggi?
Non potrei mai farti un elenco perché le persone che ammiro sono troppe! Sono molto aperto all’ammirazione e credo che questo sia un tratto simpatico e positivo del mio carattere, uno dei pochi. Come tutti, ho avuto e ho degli eroi, cioè persone che non incontrerò mai perché troppo lontane da me nel tempo o nello spazio, e dei maestri, persone che invece sono state presenti nella mia vita, mi hanno fatto da modelli e mi hanno aiutato.

Sempre Angelo, il protagonista dice: “quello che cerchiamo fuori, sta tutto dentro di noi”. Sai che non ne sono sicura? 
Nemmeno io! Andrebbe riformulata così: quello che incontriamo fuori di noi acquista davvero un senso se si aggancia a qualcosa che sta dentro di noi, se suscita un’eco interiore.

Torna Velardi, il tuo deus ex machina, che ha un amico abile hacker. Quanto è importante oggi nell’economia di un romanzo che implica un’indagine avere un personaggio abile con la tecnologia?
Ah, fondamentale. Qualcuno ha paragonato Velardi al tenente Colombo, sia per certi aspetti pittoreschi (l’impermeabile, la monomania alimentare che peraltro Velardi porta all’eccesso perché va in giro con il cibo cinese in tasca) sia, in generale, perché è un uomo dall’aspetto buffo e dimesso, facile da sottovalutare, che si rivela dotati di qualità al limite del sovrumano – una caratteristica il cui modello originario è il padre Brown di Chesterton. Se è così, Max Barro, il socio gay di Velardi genio dell’informatica, è la moglie del tenente Colombo! Infatti non lo si vede mai, eppure dà un apporto fondamentale.

Cosa rappresenta Velardi per te?

Se fossi in vena di esagerare ti direi che è il padre che non ho avuto. Non perché sia rimasto orfano da piccolo, anzi mio padre quest’anno ne fa novantuno ed è vivo e vegeto, ma perché… be’, lasciamo stare e diciamolo in un altro modo: Velardi è l’amico che ti toglie dai guai, senza rinunciare a dirti dove e perché hai sbagliato. È il vicino di casa ideale. In una famiglia probabilmente sarebbe lo zio geniale. Il tutto però condito da qualcosa di imprevedibile e di sinistro. Velardi non è mai rassicurante, è sempre inquietante anche quando combatte dalla tua parte.

Odi gli incasellamenti? Le gabbie delle definizioni?
Guarda, io mi regolo così. In teoria bisognerebbe astenersi dall’incasellare, in pratica ci serve avere dei punti fissi nel mondo. Quindi anch’io incasello, eccome, ma le pareti di queste caselle sono elastiche e ci metto un attimo a spostare le persone e le cose da una casella a un’altra, quando mi accorgo di essermi sbagliato. O a lasciarle fuori da qualsiasi casella quando capisco che definirle è impossibile. Fra parentesi, con queste parole credo di aver dato la mia descrizione di ciò che chiamiamo “fascino”. Per esempio una donna non inquadrabile conquista subito la mia curiosità e ha molte probabilità di conquistare altro… ammesso che le interessi. 

Che importanza ha l’ironia nei romanzi con un’anima nera e in generale nella vita? Nella presentazione del libro hai detto che col passare degli anni la parte di commedia ha preso sempre più spazio nei tuoi libri…
Penso che uno scrittore giovane, o comunque alle sue prime prove, abbia il dovere di essere molto incazzato col mondo; se non fosse così probabilmente non scriverebbe, atto che presuppone sempre uno sguardo critico o almeno problematico sulla vita, ma si limiterebbe appunto a vivere. Credo però anche che uno scrittore nell’età matura abbia un dovere diverso, quello di essere onesto nella rappresentazione della vita. Ora, come ha detto il filosofo spagnolo George Santayana, ogni creatura vivente ha un’essenza poetica, una fine tragica, un’esistenza comica. La vita è una tragedia, basta vedere come va a finire; ma l’unica cosa che possiamo fare è viverla come una commedia. Poi c’è da dire che ho scoperto che far ridere i lettori mi piace tantissimo!

Finiamo con una domanda leggera:
Parli del regalo perfetto: regalare qualcosa che uno già ha, perché così si è sicuri piacerà.
Dimmi il regalo perfetto per l’uomo  Raul e quello per lo scrittore Montanari.

Hm. Il regalo perfetto per l’uomo non sarebbe, in questo caso, qualcosa che ho ora, ma che ho avuto in passato: alcuni momenti in cui ho sentito che le cose stavano cambiando e la mia vita riprendeva slancio, scattava in avanti con fiducia, con forza. È successo in età diverse: intorno ai 25 anni, poi a 40, poi a 50. 
Per lo scrittore è più facile: chi scrive libri vuole solo essere letto. Che altro regalo ti può fare il mondo?


MilanoNera ringrazia Raul Montanari per la cortese disponibilità.




 

Cristina Aicardi

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