Il delitto della finestrella – Filippo Venturi



Filippo Venturi
Il delitto della finestrella
Mondadori
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Saluto con vivo piacere il ritorno del Zucca, al secolo Emilio Zucchini, l’oste-detective di Filippo Venturi. Fedele seguace della tradizione gastronomica bolognese, con umanissimo fiuto investigativo viene a capo di delitti e misteri in cui troppo spesso finisce per inciampare.

 Ne Il delitto della finestrella (Mondadori, collana Il giallo Mondadori, luglio 2024), quarta ”indagine” del Zucca, il suo creatore conferma appieno le doti di scrittore, brillante, estroso e per nulla superficiale, di cui ha dato prova nelle precedenti black comedy.

D’altronde, basta leggerne i titoli (Il tortellino muore nel brodo, Gli spaghetti alla bolognese non esistono, È l’umido che ammazza, tutti editi da Mondadori) per cogliere al volo la “poetica” di questo irresistibile e picaresco oste-detective che non esita a opporre un categorico rifiuto a chi gli chieda una deroga ai sacri dettami della cucina classica bolognese. Figuriamoci una variante al ragù o alla panna dell’arcinoto tortellino in brodo di cappone o, peggio, uno spaghetto in salsa di carne. 

Nel suo locale, La Vecchia Bologna, le lasagne si preparano ancora con sfoglia verde di spinaci, sovrapposta a sei strati e condita con un ragù cremoso di abbondante besciamella. E ai suoi tavoli i turisti vengono, sempre più numerosi da quando il capoluogo emiliano è entrato nel novero delle città d’arte, per godere un altro aspetto della cultura bolognese. Non meno saliente dei suoi monumenti. 

E pensate che alla bolognesità dell’oste detective non gli va giù nemmeno il soprannome che gli hanno affibbiato, “Zucca”, perché richiama troppo un fondamentale ingrediente della gastronomia ferrarese. Anche se, pur a malincuore, si rende conto che «mica potevano soprannominarlo “ripieno di tortellini”». 

È poi tale la connessione emotiva di Zucchini con la sua cucina che, ogni volta che «si sta per materializzare un guaio», quella lo avverte, neanche detenesse «poteri al limite dell’esoterico». Ecco quindi che la sfoglia non gli riesce, il ragù risulta sbiavdo (poco saporito), il mascarpone non si monta, un pallino da caccia sopravvive nella coscia di fagiano, la cantina si allaga, salta la corrente proprio quando deve chiudere i conti di cassa. Contrattempi forse modesti, ma di sicuro forieri di ben più sciagurate evenienze.

Il suo autore, d’altro canto, è addirittura un “doppio” del protagonista. Ristoratore lui stesso e titolare di una trattoria in pieno centro storico, dove è d’obbligo l’ossequio alla cucina della tradizione. 

Nella realtà, guarda caso, quella trattoria si trova a poche decine di metri dalla finestrella che dà il titolo alla sua ultima fatica letteraria e che, socchiusa su via Piella, consente di scorgere il corso in superficie del Canale delle Moline, uno dei tanti interrati a Bologna nei primi decenni del Novecento. La zona è senz’altro pittoresca, soprannominata “la piccola Venezia”, ed è assidua meta di turisti e di innamorati che lasciano lucchetti a testimonianza del loro passaggio, tanti da far concorrenza al romano Ponte Milvio.

Ebbene proprio là, gettato dalla Finestrella, viene rinvenuto il cadavere di Giotto, un writer del cui omicidio finisce per essere accusato Maicol Fabbri (che dire della inusuale grafia?! Una licenza poetica non estranea a una certa attitudine bolognese). L’uomo, ben conosciuto da tutti i ristoratori del quartiere, è un tipo strampalato: un “ragazzo del ‘74” la cui normalità è stata sepolta sotto il boato di uno schianto che Bologna forse ha dimenticato (e la cui infausta data Venturi ha voluto citare in copertina).

Orbene, in una piovosa notte invernale in cui “la pioggia sta facendo i tortellini nelle pozze”, Maicol si presenta nella trattoria del Zucca, non per ordinare la consueta rosetta di pane imbottita di mortadella, ma tutto grondante di sangue che pare uscito da un film horror. Non è ferito e il nostro oste preferirebbe non farsi troppe domande sull’accaduto, visto tra l’altro che la sua mente è assorbita da inediti tormenti d’amore per una seducente cronista sportiva. Eppure la sua empatia non gli consente di sottrarsi all’ennesima indagine quando, di lì a poco, viene scoperto il cadavere del writer e proprio Maicol è accusato dell’omicidio. 

La sua tormentata ricerca lo porterà tra i tanti locali di via del Pratello – bar, osterie, piccole trattorie – dove Bologna non dorme mai, ma anche sulle ambigue tracce degli influencer e lungo storici sentieri dimenticati. 

Inalberando l’aria del perfetto “umarell”, «mani dietro la schiena, aria da gnorri, fischiettino mezzo innocente e mezzo colpevole», Emilio Zucchini si aggirerà per la sua amata Bologna senza mai perdere la sua sagace umanità. Zucca, infatti, non è solo un oste valente ma un ottimo conoscitore di caratteri, un uomo buono sempre pronto a lanciarsi a soccorrere chi finisce nei guai. Da oste a investigatore, dunque, il passo è breve. «La perspicacia è da sempre una delle sue doti migliori. In trattoria lui capisce tutto al volo. Vede qualcuno sulla porta e sa già come comportarsi: ha previsto se essere formale o meno, se usare il lei o il tu, se mantenersi a distanza o azzardare una battuta. Lui, appunto, si intende di persone[…]». 

Ed è forse questa capacità di sintonizzarsi sugli altri a renderlo sempre disponibile a intraprendere indagini, forse strampalate ma alla fine coronate da successo.  Gustose come i suoi piatti, spesso indiavolate come un vaudeville, costellate di equivoci ma non prive di tensione e di intrigo avvincente. 

E, se è vero che da qualche anno gli chef sono diventati protagonisti anche della scena narrativa e cinematografica – almeno per quanto riguarda il genere light crime, ovvero il racconto d’indagine che si apre spesso al sorriso -, l’oste-detective di Venturi occupa un posto di convincente rilievo, proprio grazie alla sua spontanea, generosa e convincente umanità e a una mente veloce che, al pari di un Bimby, «parte a macinare, tritare, tutti gli ingredienti che trova, per ricavarne un impasto omogeneo».  

Attorniato da una gustosa schiera di comprimari, spesso divertenti ma mai macchiettistici, Emilio Zucchini sciorina caratteri e doti di peculiare bolognesità, ben riconoscibili da chi scrive ma apprezzabili anche dai non conterranei.

L’autore dosa con abilità humour ed empatia, acume psicologico e capacità di osservazione, espressioni gergali e colorati neologismi. La sua scrittura è fluida, avvincente, ricca di profumi. Un delitto non assaggiarla, come del resto la sua cucina.

Giusy Giulianini

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