“Nessuno di tutti questi grandi scrittori, questi geni che ho incontrato, era felice in realtà. Loro erano in uno stato di infelicità e di paura continua. Paura di una realtà che non si riesce a controllare”
E se lo diceva Fernanda Pivano c’era da crederci. Ricordo come fosse ieri queste parole che mi disse qualche anno fa, quando l’andai a trovare nel suo bell’appartamento affacciato sui giardini della Guastalla, a Milano. Mi ricevette in una grande casa luminosa, piena di libri. Volle subito che ci dessimo del tu. Friendly la definirebbero gli americani che lei ha tradotto così bene per tutta la vita. E fu proprio grazie ad un americano che ebbi il piacere e l’onore di conoscerla.
All’epoca – io scrittore in erba, emerito signor nessuno, ancora lontano dal pubblicare romanzi gialli, dai premi e dalle traduzioni – mi ero messo in testa di scrivere un libro sul mio autore feticcio Charles Bukowski e per farlo avevo voluto puntare in alto, scegliendo il miglior compagno di viaggio sulla piazza: la Pivano, of course.
Bukowski e Fernanda si erano conosciuti in California all’inizio degli anni Ottanta quando lui le concesse una lunga intervista, diventata poi il libro Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle (Feltrinelli). Da quel momento in avanti erano diventati buoni amici.
Quando la contattai chiedendole di poterla incontrare, fu subito affabile e disponibile. Il suo numero lo si trovava sull’elenco del telefono per dirvi quanto fosse alla mano…
Bastò la mia passione per Bukowski come lasciapassare: lei è sempre stata ben disposta verso chi si interessava ai suoi amici scrittori. “Ce n’è così bisogno!”, ripeteva.
Senza contare poi che richieste del genere le arrivavano di continuo: moltissimi studenti ogni giorno la contattavano. Sono state scritte più di cento tesi di laurea sulla Pivano. Se glielo si ricordava prima sorrideva e, un attimo dopo, si arrabbiava perché qualche professore aveva avuto l’ardire di bocciare un paio di studenti colpevoli di essere stati troppo aiutati da lei!
Trovarmela davanti fu una grande emozione: per me rappresentava un mito vivente tanto che entrare nella sua casa, tra pile di libri e lattine di Coca-Cola – che durante il nostro dialogo aveva bevuto senza sosta – all’inizio mi lasciò un po’ disorientato. Durò solo un istante però: subito mi mise a mio agio. Iniziammo a parlare di letteratura americana e mi scordai di tutto il resto.
Parlava di Bukowski con occhi sognanti ricordando lucidamente dettagli, dialoghi e situazioni. Passava con nonchalance a citazioni di “papa” Hemingway, di Jack Kerouac o di Allen Ginsberg. Sorridendo e compiacendosi del fatto che lei, amica dei più grandi ubriaconi della storia della letteratura americana, era sempre stata astemia. E fu proprio su questa frase che mi mostrò la dedica del mio autore preferito. Era scritta su un foglio a righe di quaderno.
“Avresti dovuto brindare con me. Ma è stato bello comunque”
Brindammo a Coca- Cola alla salute di Buk. Rimasi ore insieme a lei. Registrai la sua voce su cassetta per essere sicuro di non perdermi nemmeno un aneddoto.
Il mio libro uscì qualche mese dopo ed ebbe un certo successo. Il titolo lo suggerì lei: Bukowski scrivo racconti poi ci metto il sesso per vendere (Stampa Alternativa).
“Perché parli sempre di sesso?” aveva chiesto a Bukowski.
“Vedi”, aveva risposto lui “Io faccio dei bei racconti, poi ci metto dentro il sesso per vendere”
“Ma almeno lo fai il sesso?”
“Di questo non ti preoccupare”
Me lo raccontò con aria sognante e io la voglio ricordare così: sorriso dolce e occhi sorridenti mentre beve Coca-Cola e mi parla di Bukowski.
Ora sarà con “papa” Hem, coi suoi adorati beat, con De André… Ciao Nanda.
Ciao Nanda
paolo roversi