Nel cinema è quanto di più logico possa esistere: l’attore che recita in scena un personaggio non è il personaggio stesso. Affermare il contrario – a parte Bela Lugosi, nome d’arte dell’ungherese signor Béla Ferenc DezsÅ‘ Blaskó, e pochi altri casi – significherebbe far coincidere Brad Pitt con uno degli – undici, dodici, tredici – di Ocean oppure Renée Zellweger con un’imbranaticcia e rotondetta ragazzotta “di periferia” trapiantata in città.
Eppure, nella letteratura, non vale la stessa semplice regola.
Spesso chi scrive, scrive del “colui che scrive”. Spesso chi legge, legge – e a ragione – l’autore nel personaggio. E questo è il primo problema.
Il secondo problema è che quel “colui che scrive”, in realtà non esiste. O esiste – per dirla in maniera differente – nella realtà auto referenziale dello scritto. E di colui che lo scrive.
E lo aveva capito molto chiaramente anche Lewis Carroll, al secolo – l’ottocento – Charles Lutwidge Dodgson.Dodgson aveva più vite: era matematico, fotografo, inventore, docente universitario, gran giocatore e molto altro. In particolare, con lo pseudonimo di Lewis Carroll, era anche autore. E fra le su principali produzioni scrisse anche un testo particolarmente illuminante, sotto vari punti di vista.
Il titolo originale è “Through the Looking-Glass and what Alice Found There”, traducibile con “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”.In Italia, però, è pubblicato spesso, semplicemente, come “Attraverso lo specchio”. Per esempio, nella collana degli economici Newton & Compton.
Quel che Alice vi trovò, in effetti, è piuttosto interessante. Lungi da me lo svelarvelo: se non l’avete già letto vi consiglio di farlo quanto prima. E interessanti sono anche le considerazioni secondarie, i livelli di lettura ulteriori, che il libro racchiude. Non ultima la disanima del rapporto autore/uomo. Esplicitata anche dal dualismo Carroll/Dodgson.
Quanto di sé ciascun autore inserisce nel personaggio o nei personaggi che fa agire nella storia? Quanto questa scelta condiziona il suo scrivere e il suo stile? E soprattutto, quanto questo processo avviene in maniera consapevole e come libera scelta?
Non sono domande di poco conto e le risposte, naturalmente, variano da autore ad autore, da libro a libro e da personaggio a personaggio. Ciononostante – dal mio punto di vista – troppo spesso si avverte dietro al personaggio, presunto, fittizio la realtà auto referenziata e auto referenziabile dell’autore. E spesso quella realtà non corrisponde minimamente a una realtà oggettiva. O oggettivabile.
Se fosse una scelta consapevole non si porrebbero ulteriori complicazioni ma – sempre dal mio personale punto di vista – molto spesso così non è.
Riuscire a scrivere e a ricreare, un personaggio altro da sé, però, è tappa obbligata di qualsiasi evoluzione letteraria. Un passaggio ineludibile per approfondire “Lo spazio nero” di ciascun autore – o lettore – e per capire come, e quando, aprire e chiudere le nostre casseforti.
Franklin Pierce Adams, giornalista arguto e redattore della colonna “The Conning Tower” prima sul New York Tribune – fino al 1937 – e poi sul New York Post – fino al 1941 – scrisse quanto segue: “In molti romanzi, la trovata letteraria più geniale, è l’avvertimento che i personaggi sono puramente immaginari”.
Un’ultima nota: Franklin Pierce Adams, in realtà si chiamava Franklin Leopold Adams.