Il passato è come una lampada posta all’ingresso del futuro postulava Félicité Robert de Lamennais.
Il problema, soprattutto allorquando sfogliamo un gustosissimo giallo, è proprio quel che viene illuminato, poiché non è sempre un futuro radioso, ma un futuro che riverbera delle eco di un passato caliginoso e vermiglio.
E Arnaldur Indridason non ci esenta da questa costruzione narrativa, trasportandoci in una Reykjavík innevata, sebbene ben sappiamo quali segreti possano nascondersi sotto un manto candido e pulito, soprattutto se sono segreti del passato, come una vecchia pistola, che finisce chissà perché e chissà percome tra le mani di una amabile pensionata ed appartenuta al suo defunto marito.
È da quella vecchia arma che si dipana una vicenda fredda come l’Islanda e fredda come quel ferro vecchio, che richiama il detective Konráð come una calamita e che lo trasporta in un vecchio caso irrisolto della metà degli anni Cinquanta, tra odori di pesce secco e tanfo di aliti alcoolici di personaggi la cui caratterizzazione non è mai rarefatta, ma che brillano tra le pagine per la loro eccellente rappresentazione sia etica, sia estetica.
L’autore ci accompagna in ambientazioni lontane dalla nostra idea narrativa centro Europea fatta di salotti e di calde colazioni pomeridiane, catapultandoci in una Islanda imbiancata come l’Irlanda di Joyce, ma con molta meno poesia e molta più asprezza, come se le note di Ava Adore degli Smashing Pumpkins avessero preso forma e sostanza su quella carta scelta con certosina cura da Ugo Guanda Editore.


