Come sei arrivato alla scrittura? Perché proprio la scelta del giallo?
Prima della scrittura è arrivata la creatività. Ho sempre avuto la sindrome del foglio bianco, ma al contrario. Già da bambino. Ovvero se vedevo un fogli sentivo il bisogno di riempirlo. Con disegni, parole, musica o poesie. Il percorso per capire quale fosse il miglior linguaggio con cui potevo esprimermi è stato lungo. Per molto tempo anzi ho creduto fosse una mia semplice fantasia, questa necessità, un vezzo del mio carattere. Ma continuavo: a scrivere testi di canzoni, poesie e racconti. Solo dopo i trent’anni ho iniziato a scrivere qualcosa di organico. E quasi senza che me ne accorgessi si trattava di un giallo. Non so dire con precisione perché la scelta del linguaggio espressivo è ricaduta su questo genere. È stata una cosa naturale, infatti per la prima volta mi sono trovato a raccontare qualcosa con facilità, in un certo senso sapendo già dove volevo andare e come ci sarei arrivato. In parte sarà dipeso dalle mie letture, in parte dal fatto che la costruzione di una trama gialla è un procedimento che mi intriga, in parte per qualcosa di cui non sono pienamente consapevole.
Che tipo di scrittore sei? Ti imponi un programma giornaliero oppure lasci vincere l’ispirazione del momento?
Nessuno dei due. Non sono metodico e anzi la routine genera in me risultati mediocri, non solo nella scrittura ma in tutti gli ambiti della vita. Ma neppure credo “all’ispirazione del momento”, nel senso che se non esiste un programma che strutturi l’idea e l’impellenza creativa, esse rischiano di perdersi in circonvoluzioni approssimative ed espressioniste.
Diciamo che vivo nel mio disordine organizzato, che è tale all’esterno ma perfettamente chiaro a me che lo abito.
Invece come lettore, ami leggere gialli o prediligi altri generi? A quali autori ti ispiri in particolare?
I gialli mi piacciono, ma non sono la mia unica fonte, anzi. Leggo di tutto. Sono nato con il fumetto, sono un bonelliano convinto, adoro Corto Maltese. E poi mi piace ascoltare ogni tipo di storia che sia raccontata bene, che abbia qualcosa da dirmi, uno spunto originale che mi permetta di guardare diversamente la realtà. Per cui mi piace la narrativa così come il fantasy, l’horror come i classici. Spesso leggo anche saggistica. Sono molto curioso e mi piace conoscere qualunque cosa.
Se devo pensare al primo autore a cui mi sono ispirato per scrivere, e che quindi faccia parte del genere, dico Fred Vargas, se invece devo dire quali sono i miei fari sentimentali allora è difficile scegliere, ma penso che Camus, Tolstoj e Murakami rappresentino un buon punto di partenza:
Ora soffermiamoci sul tuo nuovo libro, Il settimo esorcista. Com’è nata l’idea di questo romanzo e come descriveresti il tuo rapporto con l’esoterico?
Arriva da lontano: da oltre 70 anni fa. Quando la mia bisnonna, precettata per guidare i tram in tempo di guerra, salvò la vita a una bambina caduta sulle rotaie mentre il suo mezzo stava sopraggiungendo. La famiglia della miracolata decise di far realizzare un ex-voto per celebrare la grazia ricevuta. Il quadro che ne nacque è uno dei moltissimi presenti nel Santuario della Consolata, che custodisce una delle più grandi raccolte di ex-voto italiane. Ecco, l’idea di come la vita o la morte calino su di noi, salvino o uccidano senza ragione e in maniera improvvisa, facendo del tempo e degli eventi il più brutale dei killer così come il più clemente dei misericordiosi, è qualcosa che spesso gira nei miei pensieri. Con Il settimo esorcista ho voluto proprio parlare di questo: il caso, gli sventurati, i miracolati e qualcuno che al destino vuole sostituirsi.
Per me la componente esoterica deve essere lo sfondo e l’atmosfera in cui si muovono i personaggi e le storie. Perché in un certo senso questa suggestione rappresenta Castelli stesso. Ma non è il nucleo narrativo del romanzo: la forza che muove la vicenda deve essere invece semplice, i moventi quasi banali, perché questo è ciò che spesso accade. La maggior parte dei crimini viene commessa per denaro, passione o vendetta. E in questo voglio mantenere verosimiglianza.
Quanto è difficile scrivere di un argomento del genere? Quali sono state le tue fonti principali?
Non è stato facile perché prima di tutto ho dovuto affrontare le mie stesse paure e non nascondo che mentre mi documentavo ho passato momenti che definirei strani, perché non saprei quale altra parole utilizzare. Nel senso che io stesso, nell’addentrarmi nel tema trovavo una tenebra sempre più fitta e dubbi di volta in volta più inquieti. Ma ho continuato. Ho letto molte testimonianze e parlato con alcune persone che hanno avuto esperienze su entrambi i fronti, per così dire. Ma sono questioni strettamente private e preferisco non addentrarmi più di tanto in questo.
Castelli è un essere umano nel vero senso della parola, con le sue imperfezioni e debolezze. Si distacca un po’ dal prototipo del vicequestore, perché questa scelta?
La risposta sta già nella domanda ed è: debolezza. Siamo deboli, siamo sbagliati e prima o poi moriremo, tutti quanti. Ma sembra che ce ne vogliamo dimenticare. Sembra che tutto il mondo sia in corsa per arrivare primo a una specie di gara in cui siamo coinvolti a nostra insaputa. Bisogna vincere, non si deve perdere. Chi perde non vale nulla, chi si mostra debole è finito, resta indietro. Invece non c’è nessuna gara, ma proprio per niente. Solo un traguardo insegue noi, e non viceversa. E allora cosa vogliamo vincere? Dove vogliamo arrivare? Perché invece non ci mostriamo deboli, come siamo, e ammettiamo di esserlo, senza che questo ci renda tormentati o tristi? Nella debolezza, nella resa, nella condivisione del destino troviamo l’unico punto in comune con il resto dell’umanità. L’unico aspetto che ci fa fratelli davvero. Ecco, con Castelli volevo creare un personaggio che fosse paladino della debolezza.
Passiamo a Georgine, che ho amato particolarmente. Da come la descrivi e analizzi si nota una certa simpatia. Sbaglio?
Simpatia? Io la amo, non scherziamo, che poi conoscendola capace che si risenta. La prima pagina in assoluto che scrissi partiva con Castelli che salutava Georgine mentre lei chiudeva la porta del suo appartamento. Ancora non sapevo si chiamasse Georgine, ancora non sapevo neanche che sarebbe diventata così importante nelle storie che avrei raccontato. Ma era già lì, a fissarci dal battente socchiuso, di certo con uno sguardo che stava a dire ci vediamo presto tesoro. Perché io non sapevo ancora chi fosse, ma lei invece sapeva già bene chi fossi io, e non mi avrebbe mollato tanto facilmente.
Ogni personaggio ha una storia da raccontare, traumi e dolori irrisolti. Spesso le apparenze ingannano e il confine tra giusto e sbagliato viene valicato. Quanto il dolore è importante nei tuoi libri e nella vita quotidiana?
Di nuovo la domanda è rivelatrice: il confine tra giusto e sbagliato viene valicato. Già, viene valicato perché credo che non esista confine, credo che non esista il bene e neppure il male, penso che esista il modo in cui certe azioni e certe parole ci fanno stare. La stessa cosa può essere buona per me e pessima per un altro. Quindi non credo al bene o al male assoluti, ma piuttosto a una sorta di grigiume morale entro il quale muoversi. Così come non credo alle categorie etiche ma piuttosto alle emozioni, e il dolore è una di queste, che ci spingono a compiere azioni piuttosto che altre.
Domanda d’obbligo: quale sarà la prossima storia? Avremo il piacere di immedesimarci ancora nelle imperfezioni di Andrea Castelli?
La storia esiste già, eccome. Si trova sul mio desktop in un file che al momento si chiama XXX, visto che ancora non ha un titolo definitivo pure se è già terminata. Ha come nucleo un fatto realmente accaduto a Torino e una antica leggenda alpina legata alla pelle dei camosci. Ma non solo: nella mia mente ci sono almeno altre cinque indagini con il vicequestore Castelli come protagonista. Se poi potrete leggerle che dire? Lo spero quanto e forse più di voi.