Intervista a Marco Montemarano

un_solo_essere_02_2_Marco Montemarano, romano di nascita, vive e lavora dal 1990 a Monaco di Baviera. Nel 2013 ha vinto con “La ricchezza” il premio nazionale di letteratura Neri Pozza. Questa estate ha pubblicato, sempre per Neri Pozza, la sua ultima fatica, “Un solo essere”, opera struggente e drammatica, ispirata ad un reale fatto di cronaca nera e ambientata parte in Italia e parte nell’ambiente accademico tedesco.

Marco, partiamo, come si dice, dall’inizio: i titoli hanno sempre un significato preciso, specialmente in un romanzo. Ci vuoi spiegare il perché di “Un solo essere”?
Mentre mi documentavo per la scrittura di questo romanzo ho riletto “Storia della morte in Occidente”, l’opera di Philippe Ariés del 1975. È stato lì che mi sono imbattuto in un verso di Lamartine: “Un solo essere vi manca e tutto è spopolato”. L’idea di un lutto così grande, un lutto che ci colpisce tanto intensamente da trasformare in un deserto tutto il mondo intorno a noi, mi è sembrata potente, dato il tragico fatto da cui il romanzo prende le mosse, e così ho deciso di farne il titolo del romanzo.

Il tuo libro, semplificando molto, è composto di due storie, una d’amore, l’altra di amicizia, che potrebbero apparire all’inizio slegate, ma che non tardano a ricongiungersi strettamente, per trovare un epilogo e una spiegazione comune. Abbiamo detto che “Un solo essere” è ispirato ad un reale fatto di cronaca nera (l’omicidio di un giovane ingegnere italiano, avvenuto a Monaco di Baviera nella primavera del 2013, il cui autore non è stato ancora scoperto) e dedicato alle sue “vittime”. Quanto c’è di reale nel libro e quanto dovuto in toto alla fantasia dell’autore?
La storia parte da quel fatto tragico, avvenuto a pochi metri da casa mia, una tragedia della quale io conosco personalmente le due vittime, Domenico e la sua compagna presente all’assassinio. Ma poi si sviluppa in una direzione diversa, affronta i temi dell’identità divisa, di come i traumi possano deformare la personalità degli individui fino a renderli estranei a se stessi. Il tutto in un “plot” che in parte è anche poliziesco.

Parte della storia è dedicata all’infanzia di “herr professor Alexander” ed è funzionale alla spiegazione del suo carattere e delle sue paure. Nei tuoi libri parli spesso delle insicurezze, dei traumi e delle turbe giovanili, e “La ricchezza”, la tua precedente fatica letteraria, si può sicuramente considerare un romanzo di formazione. Quanto possono incidere un’infanzia o una gioventù “problematiche” sul carattere di un individuo?
Come dicevo prima, il processo di crescita di un individuo è disseminato di ostacoli. Non sono uno psicologo né un terapeuta, quindi non so dire esattamente che cosa porti alcuni individui a lasciarsi alle spalle i propri traumi più rapidamente rispetto ad altri. Sappiamo che uno stesso evento può essere profondamente traumatico per una persona e quasi insignificante per un’altra. Una cosa però vale per tutti: nella vita deve esserci un momento, che coincide più o meno con il passaggio all’età adulta, in cui un individuo prende in mano le briglie della propria esistenza, elabora e impara a elaborare traumi e lutti, si struttura in una forma che chiamiamo “maturità”. Se questo lavoro non c’è, non ci sarà nemmeno la maturità. Purtroppo, se ci guardiamo intorno, vediamo una quantità infinita di personalità immature, schiave di coazioni a ripetere, irrisolte, deformate dai traumi. E questo sia nel privato che nella vita pubblica.

Anche “Un solo essere” è ambientato, in parte, negli anni ’70, che sono stati anche gli anni della tua “prima” giovinezza. Nostalgia (che peraltro sarebbe giustificatissima) per quel periodo?
Non posso fare a meno di tornarci. Quegli anni per me hanno perso la loro dimensione strettamente temporale, si sono trasformati in un luogo, in un territorio a cui non smetto di tornare e che non smetto di esplorare. Penso che siano stati anni importanti per l’Italia e per il mondo. Per me e per le persone della mia generazione sono stati però anche gli anni della formazione e dell’educazione sentimentale. In fondo non è normale che sia così? Che una parte del nostro passato entri in una dimensione mitica e ci accompagni per tutta la vita? Credo che sia così per la maggior parte di noi.

Nei tuoi libri padroneggi con grande maestria l’analisi psicologica dei protagonisti e questo mi pare denoti un interesse specifico da parte tua che va al di là dell’aspetto puramente letterario. Da dove ti deriva questo interesse per le motivazioni psicologiche e i riflessi mentali che le vicende della vita possono avere nei confronti degli individui?
Sono cresciuto in una famiglia in cui l’attenzione (e la sofferenza) legata agli aspetti psicologici delle persone era molto forte. Sono stato educato all’empatia, all’immedesimazione, all’approssimazione agli altri. Da questo punto di vista sono debitore in particolare di mia madre, la quale ha vissuto sulla sua pelle tutto il dolore che poteva sperimentare una donna di origini contadine, praticamente analfabeta, trascinata in un sogno piccolo borghese rispetto al quale si sentiva inadeguata. E poi c’è un aspetto di autodifesa. Mi sento sicuro solo se ho la sensazione di intuire, almeno sommariamente, le motivazioni di chi mi sta di fronte e di poterne prevenirne le cattive intenzioni.

Una domanda banale e temutissima da tutti gli scrittori: quanto c’è di Marco Montemarano e delle sue esperienze personali in “Un solo essere”?
Tutto ma anche molto poco. Di autobiografico ci sono certe osservazioni e situazioni tipiche della Germania di oggi vista attraverso gli occhi di un italiano. Ma mai come in questo romanzo i personaggi sono psicologicamente lontani da me. Tuttavia un autore deve sempre farsi testimone e garante della veridicità/plausibilità della storia che scrive. Il lettore deve avere la sensazione che l’autore parli “dal di dentro” di un determinato mondo. Altrimenti un romanzo non può assolutamente funzionare.

Tu ti sei affacciato relativamente tardi, anche se con grande successo, al mondo della scrittura e dell’editoria. Che consigli daresti ad un giovane scrittore che volesse affrontare seriamente questa difficile realtà?
Direi che da un lato c’è spazio per tutti, anche grazie alla presenza di molte case editrici piccole e grandi. Dall’altro gli direi di non farsi prendere troppo dall’illusione che un testo possa davvero essere “costruito” a tavolino per il successo. Gli direi di non partire dal tentativo di intercettare o assecondare un pubblico o un lettore immaginario ma da se stesso. Di parlare sempre, come dicevo prima, “dal di dentro”. Di lavorare seriamente, anche se ci vogliono anni (nel mio caso ce ne sono voluti quasi trenta) per arrivare a una forma soddisfacente e a un riconoscimento.

A poco più di venticinque anni tu hai lasciato l’Italia per vivere e lavorare in Germania, in un periodo in cui questo “salto” non era ancora così normale (oltretutto, erano gli anni immediatamente successivi al crollo del muro…). Come è cambiata la Germania in questo periodo? C’è ancora spazio per i giovani italiani che oggi fanno la tua stessa scelta di lasciare il loro Paese?
La Germania in un quarto di secolo è cambiata molto ma ha dimostrato di saper affrontare il cambiamento senza snaturarsi. La funzione “update” è sempre attiva in questa società e funziona bene. Il cambiamento in futuro sarà ancora maggiore e più rapido, ma trovo che questo paese stia dimostrando di sapersi muovere, di saper prendere posizioni e decisioni chiare rispetto al tema dell’immigrazione. I giovani italiani che vengono qui secondo me devono essere aperti al nuovo. È utopico pensare di poter venire qui “a fare gli italiani”, come ci succede troppo spesso. La Germania sta mandando all’Europa un segnale chiaro: è disposta a fare la sua parte, a integrare al limite anche milioni di persone nei prossimi anni, a patto che siano qualificate, disposte a imparare, utili agli altri. In questo c’è anche un aspetto spietato, estremamente capitalistico. Non voglio scoraggiare i ragazzi italiani, che dal mio punto di vista da noi hanno subito una grave violazione del patto generazionale e che probabilmente non saranno mai risarciti completamente di questo. Dico solo: forse bisogna essere pronti a fare il salto, a uscire un po’ dalla propria pelle. Bisogna fare i conti con il fatto che chi viene da situazioni difficili, chi è scampato alla guerra, al genocidio, alle carestie è disposto a fare molto pur di poter restare in Germania, ed è un concorrente accanitissimo.

Un’ultima domanda, più leggera… Il sogno nel cassetto di Marco Montemarano?
Tre anni fa avrei detto: pubblicare, avere una buona casa editrice, un minimo di riconoscimento. Adesso che tutto questo è successo non so risponderti. Per quanto, magari sì: approdare con una delle mie opere qui in Germania e magari in altri paesi, visto che finora i miei romanzi non sono stati tradotti. E poi – scusami ma 53 anni si inizia a pensare un po’ in questo modo – rimanere il più a lungo possibile in buona salute.

Gian Luca Antonio Lamborizio

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